Tutti parlano di Ago in questi giorni. Ci sarà un perché. Quelli che c’erano: e quelli che non erano nati (o neppure previsti). Fu una meravigliosa notte di fine maggio, quella di Roma-Liverpool del 1984. Sfortunata, ma meravigliosa. Erano anni felici per il calcio italiano campione del mondo. Agostino Di Bartolomei, uomo irripetibile, era il comandante sul campo di quel dolcissimo sogno che tutto sembrava poter portare verso la realtà. La bellezza della squadra, l’incredibile occasione di giocarsi la Coppa dei Campioni in casa: al Circo Massimo era tutto pronto per cantare “Grazie Roma” con Antonello.
Eravamo amici Ago ed io. Pur non stando nella stessa città. O forse proprio perché non stavamo nella stessa città. Era di una razza a parte (quella degli Scirea e pochi altri per intenderci). Potete immaginare come vissi – e come tutti vivemmo – il suo addio senza regalarci neanche un perché. Era il decennale esatto della finale col Liverpool
Sei anni fa accadde uno strano (quasi arcano) miracolo, mi telefonò Luca, figlio degno come pochi figli della bellezza morale di suo padre. “Marino devo assolutamente vederti di persona”. Mi portò il manoscritto del “Manuale del Calcio” a cui papà aveva lavorato a sua insaputa: lo aveva scoperto in un cassetto
Decine e decine di pagine dattiloscritte: con tutta la competenza, tutta la serietà, tutto l’amore che Ago sapeva mettere in ciò che faceva. In certi riferimenti poteva sembrare fatalmente “datato”: ma aveva una qualità irreversibilmente contemporanea, quella della saggezza. All’inizio del manoscritto c’era solo una pagina vuota su cui c’era scritto a matita: “Ricordarsi di chiedere la presentazione a Marino”
“Te la chiedo io adesso” mi disse Luca
Commozione a parte, potevo non farla?
Eccola. Così come l’ho stilata e con la stessa citazione con cui l’ho iniziata. E non è facile respingere il groppo in gola. Ma anche la gioia di ricordare quell’Uomo!
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LA VOCE DEL SILENZIO
di Marino Bartoletti
“Dio di misericordia
il tuo bel Paradiso
lo hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura
l’inferno esiste solo
per chi ne ha paura”
Fabrizio De Andrè
Ago e io ci parlavamo in silenzio. Nelle sale d’attesa degli aeroporti; nelle piccole hall degli alberghi delle Dolomiti dove la Roma andava in ritiro; davanti a un caffè a Trigoria quando quel posto era ancora il volano di accettabili e cordiali rapporti umani. Mi diceva più cose con le mani e con gli sguardi che non con le parole, che pure distillava con straordinaria intelligenza. Ed era impossibile non amare la sua educazione, la sua timidezza, la sua serietà, la sua malinconia, la sua ironia, la sua cultura.
Non credevo che mi avrebbe “parlato” ancora a distanza di tanti anni. Ma quando Luca mi ha fatto vedere quel manoscritto con il mio nome vergato dalla calligrafia di suo padre in una pagina vuota sotto la voce “presentazione”, ho capito che tutto quello che ci eravamo detti nei nostri silenzi non era stato inutile: perché volava addirittura al di sopra del tempo, dell’amicizia pur così profonda, della stima, della contemporaneità.
Ho letto avidamente questo libro che ha le radici nel passato, ma ha i suoi fiori, sempre freschissimi, nel presente: se non addirittura nel futuro. L’ho letto con la voce di Ago, un po’ nasale, ma sempre così garbata: gentile e convincente. L’ho letto abbassando gli occhi come faceva lui ogni tanto: e lo faceva a volte per reprimere nella gentilezza un’opinione diversa, ma soprattutto per riflettere. Mai per sottrarsi al dialogo.
Sono due le sensazioni, apparentemente (e forse anche dolorosamente) simmetriche, che ho maturato. La prima, quella che lui definisce genialmente “semplicità”, è la precondizione per l’apprendimento di tutte le cose: ma soprattutto è la premessa insostituibile dell’insegnamento. Leggete il suo “decalogo del calciatore”: se fossi il presidente di una qualsiasi società sportiva (calcistica e anche no) lo appenderei alla porta degli spogliatoi, obbligando chiunque la varcasse a impararlo a memoria. Non c’è pagina di questo manuale che non vada oltre i tecnicismi e persino i possibili anacronismi: perché è scritta da un Maestro, non da un Teorico. Perché dietro a ogni suggerimento, a ogni piccola suggestione, persino a ogni apparente ovvietà c’è la forza dell’Esempio.
La seconda sensazione che mi ha dato il libro parte sempre (anzi soprattutto) dall’amore, ma approda a una conclusione più amara. Forse è un bene, perdonatemi Marisa, Luca e Gianmarco, ma provo a spiegarmi, che Ago non abbia conosciuto né “questo” calcio, né “questa” società. Voi – premesso e incassato senza potervi replicare il “ma che ne puoi sapere tu quanto ci manca?” – potreste dirmi che avrebbe fatto di tutto per cambiarli: per cambiarli in meglio (e questo libro ne è una prova); ma se è vero che se n’è andato perché non si riconosceva più nell’aridità e nell’insensibilità del mondo che lo circondava e nel quale aveva creduto, ditemi come avrebbe potuto confrontare la propria dignità con tutto quello che ci opprime: nello sport, nella politica, nella quotidianità, nelle relazioni umane in generale. Lui, poi… Lui che quando era triste cercava di non fartelo mai capire; lui che quando era felice aveva l’amabilità di non ostentare fino in fondo il suo benessere, per timore che si scontrasse con qualche tua possibile malinconia.
Ora Ago vive e soprattutto sorride in questo manuale di impagabile e giudiziosa semplicità. È l’ultima lezione che ci ha voluto dare: ancora una volta col pudore di non volercelo far pesare.