Il Malgioglio diverso

E’ tanto che non lo sento: è tantissimo che non lo vedo. Lo conobbi nel 1982 realizzando un servizio su di lui per la Rai: mi colpirono la sua timidezza, curiosamente fusa con una straordinaria determinazione. Nel giorno dei suoi  60 anni voglio salutarlo su questa pagina, regalandogli il mio augurio e il mio affetto immutato. Per non parlare della stima infinita.

Parlo di Astutillo Malgioglio, detto “Tito”: un giocatore “diverso”. Formalmente persino campione d’Italia come vice di un grandissimo portiere: perché questo era il suo ruolo, che lo portò fino alla Nazionale Under 21 di Vicini. Comunque, quasi 250 presenze da professionista, dal 1974 al 1992

Amava il suo lavoro: ma amava soprattutto la solidarietà.  Anche nel pieno dell’attività sportiva aveva dedicato gratuitamente la sua vita (e mi piace pensare che lo faccia ancora) al recupero dei ragazzi disabili, in particolare alla rieducazione motoria dei bambini cerebrolesi. Per loro, coi suoi guadagni, aveva allestito nella sua città natale un centro appositamente attrezzato e dovunque si fosse trasferito non aveva mai cessato questo suo impegno. Un illuminato presidente, uno solo, gli aveva concesso una zona della palestra d’allenamento della squadra per poter trattare i suoi piccoli “pazienti” con un po’ più di riservatezza e di tranquillità

Secondo alcuni tifosi (e anche un allenatore che non c’è più) questa attività lo “distraeva”. “Perché ti ho messo fuori squadra?” gli disse appunto questo tecnico quando lo allenava in una squadra del nord. “Vallo chiedere ai tuoi handicappati”. Un bruttissimo giorno un’intera curva – la sua – la curva di una grande società e di una grande città lo insultò a sangue ed espose lo striscione con scritto “Torna fra i tuoi mostri”. Lui si tolse la maglia e ci sputò sopra (unico gesto di ribellione di un uomo mite nell’arco di un’intera vita) e se ne andò da quella squadra e da quella città. Quando tornò da avversario qualche anno dopo, andò a salutare i tifosi in segno di riconciliazione con un mazzo di fiori in mano: venne preso a insulti e bottigliate. Riguadagnò la sua porta col viso sanguinante.

Una sola volta si rivolse ai colleghi “ricchi” per avere un aiuto attraverso l’Associazione Italiana Calciatori. La raccolta fra tutti i professionisti italiani fruttò 700.000 lire (350 euro attuali). Ma ci fu anche un suo compagno di squadra poi diventato campione d’Europa e del Mondo con la propria Nazionale, che un giorno – incuriosito – volle andare a vedere il suo “lavoro”, quello per cui scappava via alla fine di ogni allenamento. Si commosse nel vederlo “accarezzare”, toltisi i guantoni da portiere, quei bimbi silenziosi.  Gli staccò un assegno di tasca sua, cento volte superiore alla cifra “offerta” da tutti i giocatori italiani messi assieme

Una volta mi disse quasi con pudore: ”Dio mi ha dato delle buone mani: cerco di usarle meglio che posso fuori e dentro al campo”. Non è mai diventato ricco (ovviamente). “Il calcio è spesso apparenza, ma non tutto è da buttare. Per me è stato semplicemente uno strumento per avvicinarmi alla felicità”. Per non parlare di quella che ha dato lui a dei bimbi che potevano ringraziarlo solo con gli occhi

Il resto a Mancio

Pare ormai fatta. Sarà dunque Roberto Mancini il successore di Giampiero Ventura (anche se personalmente avevo auspicato che fosse stato “al posto” di Giampiero Ventura, nello sfortunato e incauto totonomine che precedette gli Europei del 2016). Verrà dunque affidato a lui, per farla rinascere, quello che resta della nostra Nazionale

Non so se fosse in ballottaggio con Ancelotti o se Celestino-Carletto gli abbia spianato la strada col suo gran rifiuto. Penso che sia una scelta giusta e inevitabile, che premia un tecnico relativamente giovane e allo stesso tempo di grandissima esperienza internazionale (e anche un amico, ma mi rendo conto che il particolare sia assolutamente ininfluente).

Conosco Roberto da 36 anni. Mi sono sempre chiesto – parlo del calciatore – se il suo sia stato un talento compiuto o (vista la sua classe altissima) un talento sprecato. E’ incredibile che un campione come lui non abbia mai disputato un solo minuto di un Campionato del Mondo (avendone sfiorati tre, 1982, 1986, 1994 ed essendo rimasto sempre fuori squadra nell’unico in cui è stato convocato).

Io c’ero nell’allora improbabile Varsity Stadium di Toronto quando nel pomeriggio del 26 maggio del 1984 esordì in azzurro contro il Canada entrando all’inizio del secondo tempo al posto di Bruno Giordano; e c’ero anche quando quattro giorni dopo Bearzot (che fra nostalgie e fughe in avanti stava inventando una nuova Nazionale per difendere il titolo mondiale), rifece la stessa mossa, nel diluvio, sull’erba sintetica del Giant Stadium di New York contro una paccottiglia targata USA. La sera stessa però, dopo la partita, Roberto decise che sarebbe stato bello andare in giro per vedere la Grande Mela: peccato che il Vecio, che lo aspettò fino alle ore piccole nella hall dell’albergo, gli comunicò che non avrebbe più visto la maglia azzurra

Con Azeglio Vicini, che ne fece uno dei leader della sua stupenda Under 21 e poi della Nazionale che andò agli Europei dell’88, la musica cambiò. Ma alla fine cambiò “troppo”, perché pur avendolo aggregato (secondo Mancio con grandi promesse) al gruppo di Italia ’90, gli preferì Roberto Baggio e lui fu, con Marocchi e i portieri di riserva, l’unico a non scendere mai in campo. Si “vendicò” vincendo pochi mesi dopo l’unico scudetto della Sampdoria assieme a suo fratello Gianluca: ma conservando (e questo mi addolora ancora adesso) un discreto  – anche se ormai immagino rimosso – rancore nei confronti del caro Azeglio.

Con Sacchi arrivarono altre lusinghe (e qualche altra partita): ma l’amore non sbocciò mai. Insomma, quasi un coitus interruptus quello fra Roberto e l’azzurro, che ora sfocia in questi matrimonio proprio nel ruolo di quanti non l’avevano capito

Per “colorare” un po’ questo benvenuto, mi piace riesumare un’intervista che gli feci nel 2002 per una serie di articoli che uscirono sul “Corriere della Sera” e che poi recuperai su “Calcio 2000”. Articoli dedicati, dal 1962 in poi (curiosamente dal primo Mondiale dell’Italia dopo la sua unica esclusione), ai più celebri “turisti azzurri”: a coloro cioè che i Campionati del Mondo li avevano visti solo dalla tribuna. C’è una curiosa profezia in fondo a quell’intervista: “Un giorno diventerò Commissario Tecnico della Nazionale”. Anzi, se avrete la pazienza di leggerlo, pur sbagliando la data, Mancini dice anche qualcosa di più

 

SETTANTA GIORNI DI RITIRO

PER FARE DA SPETTATORE!

di Marino Bartoletti

  Se arrivasse in Italia il famoso marziano che sa tutto di pallone e venisse a sapere che Roberto Mancini, vent’anni di Serie A, due scudetti storici (Sampdoria e Lazio), undici (!) Coppe nazionali e europee, simbolo acclarato del talento calcistico puro, non ha MAI disputato una sola partita di un solo Mondiale, ci toglierebbe probabilmente la tessera di abitanti della galassia. Eppure è andata proprio così.

   Quattro Mondiali “sfiorati”: un record. “E nell’unico in cui venni convocato, cioè in quello del ‘90 – ringhia Roberto con un rancore ancora solido, immutato e per nulla addolcito dal tempo – Azeglio Vicini non mi fece giocare neanche dieci minuti! Nemmeno la finale per il terzo posto! D’altra parte quello non fu certo l’unico errore che commise!”

   L’inizio – come dire – è promettente (e il buon Azeglio sarà meglio, se ne ha voglia, che prepari una replica per questa e per altre pepate affermazioni del suo ex pupillo). Ma anche le premesse sull’argomento sono gustose. Per chi non lo ricordasse, Roberto Mancini è stato uno dei rarissimi casi di “bambino prodigio” che ha mantenuto tutte, ma proprio tutte, le promesse dell’adolescenza. A sedici anni giocava già da titolare in serie A (nel Bologna), a diciassette venne scelto da Paolo Mantovani come prima pietra della Sampdoria dei miracoli. “Nell’82 Bearzot mi fece addirittura balenare la speranza di poter disputare il Mondiale di Spagna: mi inserì nella lista dei quaranta , poi, alla fine, preferì Selvaggi”. Però fu poi proprio Bearzot a farlo esordire, non appena ventenne, nella Nazionale ormai campione del mondo: anche se, più che un trampolino di lancio, quello diventò l’inizio di un clamoroso esilio. “Venni convocato per una tournee in America: si stavano gettando le basi del Mondiali dell’86. C’erano ancora Gentile, Tardelli, Scirea, Collovati, Altobelli, insomma buona parte del nucleo storico, più alcuni giovani da inserire (Bagni, Battistini, Fanna, lo stesso Baresi…) Giocai un tempo a Toronto, contro la Nazionale canadese; dopo quattro giorni, stesso copione a New York al Giant Stadium contro gli USA. Feci il mio dovere: almeno in campo”. In che senso “almeno in campo”? “Una sera uscii dall’albergo assieme ad altri compagni: New York era bella, piena di luci, un paradiso per i miei vent’anni non ancora compiuti. Non feci nulla di male: tornai solo un po’ più tardi del previsto. Bearzot mi aspettava al varco: me ne disse di tutti i colori. Io forse ebbi  il torto di non chiedere scusa, né quella notte, né una volta rientrati in Italia. Bearzot me la giurò: e non mi convocò mai più! E così saltò il secondo possibile Mondiale: quello dell’86”

   Meno male, Mancini, che in azzurro arrivò il suo “nemico” Vicini…” Ero il capitano della sua Under 21: c’erano Zenga, Vialli, Ferri, Giannini, De Napoli, Donadoni, la futura Nazionale. Perdemmo il titolo europeo ai rigori: ma ci volle tutti con sé al suo debutto sulla panchina “maggiore”. Arrivò quindi l’Europeo dell’88 (nel quale, per la verità, Vicini fece non poco per imporre e difendere la scelta di Mancini), ma finalmente – soprattutto – Italia ‘90: la prima, vera, attesa occasione per scendere in campo in un Mondiale. Ma non fu così.

    “Venni inserito nei ventidue, ma non sapevo se sarei partito titolare: tanto più che per l’attacco erano state fatte anche alcune convocazioni impreviste (Carnevale, Schillaci, Baggio): però proprio Vicini – alla vigilia – mi aprì il cuore. “La sorpresa del Mondiale – dichiarò – sarà Roberto Mancini”. Fu assolutamente di parola: di sette partite, non ne giocai neanche una. Neanche mezza”. E pensare che, sulla sua strada, non era ancora apparso – se non come timida alternativa – proprio il giovanissimo Roberto Baggio, la sua dannazione. “So benissimo perché Baggio giocò e io no: ma so anche benissimo che avremmo potuto giocare assieme essendo le nostre caratteristiche fondamentalmente diverse. Peccato che nessuno lo abbia mai capito: né in quell’occasione, né più tardi”

   Erano, lo ricorderete, le celebri “notti magiche” del calcio italiano. Il vento, per gli azzurri, sembrava spirare in una direzione sola: quella della vittoria. Ma mentre Schillaci trasformava in gol come Re Mida tutto quello che gli passava tra i piedi, mentre Vialli vedeva trasformare in calvario quello che doveva essere il “suo” Mondiale, Roberto Mancini schiumava di rabbia nelle retrovie. “Settanta giorni di ritiro per fare lo spettatore. Pazzesco! Vicini si comportò malissimo con me: non ebbe neppure il coraggio di darmi una spiegazione” E lei provò a darsene qualcuna? “Probabilmente il mio torto, come quello di Vialli o quello di Vierchowod era solo quello di giocare nella Sampdoria e non in una società politicamente più forte. E Vicini, si sa, non è mai stato un cuor di leone. In quel Mondiale, purtroppo, non fu neanche un tecnico accorto: nella partita che ci costò la finale, quella contro l’Argentina, sarebbe bastato mettere Vierchowod su Maradona e tutto sarebbe cambiato. Lo avrebbe visto anche un cieco: ma, purtroppo, non Vicini”  Certo che il tempo non ha davvero stemperato quella rabbia: forse Vicini fu chiamato a fare delle scelte, ora – da allenatore, da collega – lo può capire… “Neanche per idea: anzi, adesso lo capisco ancora meno. Un regalo, però, ce lo fece. Ci fece talmente imbestialire, ferì così tanto il nostro orgoglio che noi della Samp vincemmo alla grande il successivo scudetto”. Delusione dimenticata dunque. “Assolutamente no. Anche perché, tanto per cambiare… non giocai neppure il Mondiale successivo. Sacchi mi tenne con sé fino al marzo del ’94: ma due mesi dopo partì per l’America senza di me. E allora sa cosa le dico? Che a questo punto solo una cosa potrebbe farmi dimenticare le delusioni che il Mondiale mi ha dato. Vincerlo! Vincerlo come allenatore. Non ho fretta! Il 2010 potrebbe andare benissimo”

(pubblicato nel luglio 2002)

Benvenuti nell’Olimpo

È arrivato oggi agli 80 anni come nessuno di noi potrà mai sognare di arrivarci: integro, bello, sereno, forse felice.

A detta di molti, Nino Benvenuti è stato  il più grande pugile italiano. A detta di tutti – per classe, talento ed eleganza – è stato uno dei più grandi campioni del pugilato mondiale di ogni epoca. Ma non è questo il punto. Giovanni Benvenuti, detto Nino, è stato ed è soprattutto un Grande Italiano. Figlio di una storia dapprima crudele e poi diventata sempre più luminosa: rappresentante di una generazione che ha preso letteralmente a pugni la vita, non solo in senso metaforico, piegandola al segno della speranza, quando il nostro sembrava un Paese ormai in ginocchio e senza futuro.

Era fuggito dall’ Istria delle foibe e delle persecuzioni, portando a Trieste i suoi sogni ancora intatti e l’orgoglio della sua italianità. Quando vinse le Olimpiadi di Roma del 1960, venendo dichiarato l’atleta più forte in assoluto di quel torneo (davanti a un signore che si chiamava Cassius Clay), pianse di gioia e senza pudore guardando il tricolore che si alzava sul pennone più alto. Aveva combattuto, come sempre avrebbe fatto in futuro, con l’anello di sua madre Dora, (morta per le conseguenze postume  di una spedizione punitiva da parte di un commando di titini) allacciato alle stringhe delle sue scarpe da boxeur.

Il pugilato italiano in quei Giochi, portò a casa sette medaglie  (di cui tre d’oro) su dieci complessive. Mai come in quell’occasione lo sport aveva funzionato come volano di redenzione per tanti ragazzi che altrimenti avrebbero potuto prendere  strade meno fortunate

Quello che Nino fece poi da professionista è più leggenda che cronaca sportiva. Appartengo alla generazione di italiani (pare 16 milioni) che prima dell’alba del 17 aprile 1967 ascoltò alla radio il racconto del suo trionfo al Madison Square Garden di New York contro Emil Griffith, quando si laureò  campione del mondo dei pesi medi. Quel “nemico”Griffith, vittima di ogni forma di discriminazione nel suo Paese (per il colore della sua pelle e  per la sua omosessualità) che solo da parte sua, tanti anni dopo, ritrovò il conforto di un abbraccio fraterno e di una boccata d’ossigeno per continuare a vivere i suoi ultimi giorni con dignità

Lo sport non fornisce solo campioni con medaglie d’oro al collo o con prestigiosi simboli di gloria  sul petto e nel portafoglio: ma anche grandissimi esempi: e soprattutto grandissimi uomini.  Tutti in piedi per Nino!

 

 

Tuttosport, tutto “sbam”

Paolo de Paola, direttore di “Tuttosport”, lo storico quotidiano sportivo torinese, è stato licenziato (o, come si dice, “avvicendato) alla vigilia di Juventus-Napoli, partita verosimilmente decisiva per l’assegnazione dello scudetto: dunque nel momento più delicato dell’intera stagione calcistica. Al suo posto subentra Xavier Jacobelli. Ovviamente la mia riflessione prescinde dal valore dei colleghi coinvolti: amici, prima che eccellenti professionisti. Molto dignitoso ed elegante il saluto di De Paola; sicuramente non sarà meno ricco di classe il primo editoriale di Jacobelli

Certo, a noi poveri mortali, resta misterioso il senso della “tempistica”. E’ come se Milly Carlucci venisse sostituita – chessò – da  Antonella Clerici il giorno prima della finale di “Ballando con le stelle”; o se Claudio Baglioni fosse stato rimosso a favore di Gianni Morandi (tutti nomi esemplificativi, per carità) il giorno prima della finale di Sanremo. O, per restare in chiave calcistica, è come se l’Inter togliesse la panchina a Spalletti, o la Lazio a Inzaghi a due giornate dalla fine del campionato

Nella vita sono stato direttore per dieci volte. In cinque casi ho deciso io di cambiare strada per tentare nuove avventure: negli altri cinque hanno deciso altri (per la verità – lasciatemelo dire con un pizzico di civetteria senile e quindi ormai innocua – spesso ottenendo risultatati desolatamente inferiori). Ma gli Editori a volte sono così, come i presidenti delle società di calcio: “pagano” e fanno, giustamente, quello che vogliono. E hanno ragione: perchè loro sono loro…. Personalmente ne ho rimpianto soprattutto (se non soltanto) uno: Luciano Conti proprietario del “Guerin Sportivo” e dell’Azienda (ora assorbita dalla stessa del caso-Tuttosport) che ancora porta il suo nome.

Io e lui ci dicevamo tutto guardandoci negli occhi (anzi, a volte non avevamo neanche bisogno di parlare). Quando gli annunciai che sarei tornato alla tv, lasciando la nostra creatura in condizioni che non si sarebbero mai più ripetute, mi disse una cosa che non credevo che sarebbe mai uscita dal suo cuore apparentemente di pietra. E mi abbracciò, conferendomi il primato – credo – di essere stato l’unico maschio che abbia abbracciato nella sua vita.

Nel frattempo, sempre ieri, dalla mattina alla sera, sono stati licenziati (nel loro caso purtroppo non esistono sinonimi) anche i due vicedirettori della “Gazzetta dello Sport” Umberto Zapelloni e Stefano Cazzetta

Mai come adesso sono felice di essere un uomo senza padroni

Perchè tutti parlano di Ago

Tutti parlano di Ago in questi giorni. Ci sarà un perché. Quelli che c’erano: e quelli che non erano nati (o neppure previsti). Fu una meravigliosa notte di fine maggio, quella di Roma-Liverpool del 1984. Sfortunata, ma meravigliosa. Erano anni felici per il calcio italiano campione del mondo. Agostino Di Bartolomei, uomo irripetibile, era il comandante sul campo di  quel dolcissimo sogno che tutto sembrava poter portare verso la realtà. La bellezza della squadra, l’incredibile occasione di giocarsi la Coppa dei Campioni in casa: al Circo Massimo era tutto pronto per cantare “Grazie Roma” con Antonello.

Eravamo amici Ago ed io. Pur non stando nella stessa città. O forse proprio perché non stavamo nella stessa città. Era di una razza a parte (quella degli Scirea e pochi altri per intenderci). Potete immaginare come vissi – e come tutti vivemmo – il suo addio senza regalarci neanche un perché. Era il decennale esatto della finale col Liverpool

Sei anni fa accadde uno strano (quasi arcano) miracolo, mi telefonò Luca, figlio degno come pochi figli della bellezza morale di suo padre. “Marino devo assolutamente vederti di persona”. Mi portò il manoscritto del “Manuale del Calcio” a cui papà aveva lavorato a sua insaputa: lo aveva scoperto in un cassetto

Decine e decine di pagine dattiloscritte: con tutta la competenza, tutta la serietà,  tutto l’amore che Ago sapeva mettere in ciò che faceva. In certi riferimenti poteva sembrare fatalmente “datato”: ma aveva una qualità irreversibilmente contemporanea, quella della saggezza.  All’inizio del manoscritto c’era solo una pagina vuota su cui c’era scritto a matita: “Ricordarsi di chiedere la presentazione a Marino

“Te la chiedo io adesso” mi disse Luca

Commozione a parte, potevo non farla?

Eccola. Così come l’ho stilata e con la stessa citazione con cui l’ho iniziata. E non è facile respingere il groppo in gola. Ma anche la gioia di ricordare quell’Uomo!

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LA VOCE DEL SILENZIO

 di Marino Bartoletti

“Dio di misericordia

il tuo bel Paradiso

lo hai fatto soprattutto

per chi non ha sorriso

per quelli che han vissuto

con la coscienza pura

l’inferno esiste solo

per chi ne ha paura”

                        Fabrizio De Andrè

 

 

Ago e io ci parlavamo in silenzio. Nelle sale d’attesa degli aeroporti; nelle piccole hall degli alberghi delle Dolomiti dove la Roma andava in ritiro; davanti a un caffè a Trigoria quando quel posto era ancora il volano di accettabili e cordiali rapporti umani. Mi diceva più cose con le mani e con gli sguardi che non con le parole, che pure distillava con straordinaria intelligenza. Ed era impossibile non amare la sua educazione, la sua timidezza, la sua serietà, la sua malinconia, la sua ironia, la sua cultura.

Non credevo che mi avrebbe “parlato” ancora a distanza di tanti anni. Ma quando Luca mi ha fatto vedere quel manoscritto con il mio nome vergato dalla calligrafia di suo padre in una pagina vuota sotto la voce “presentazione”, ho capito che tutto quello che ci eravamo detti nei nostri silenzi non era stato inutile: perché volava addirittura al di sopra del tempo, dell’amicizia pur così profonda, della stima, della contemporaneità.

Ho letto avidamente questo libro che ha le radici nel passato, ma ha i suoi fiori, sempre freschissimi, nel presente: se non addirittura nel futuro. L’ho letto con la voce di Ago, un po’ nasale, ma sempre così garbata: gentile e convincente. L’ho letto abbassando gli occhi come faceva lui ogni tanto: e lo faceva a volte per reprimere nella gentilezza un’opinione diversa, ma soprattutto per riflettere. Mai per sottrarsi al dialogo.

Sono due le sensazioni, apparentemente (e forse anche dolorosamente) simmetriche, che ho maturato. La prima, quella che lui definisce genialmente “semplicità”, è la precondizione per l’apprendimento di tutte le cose: ma soprattutto è la premessa insostituibile dell’insegnamento. Leggete il suo “decalogo del calciatore”: se fossi il presidente di una qualsiasi società sportiva (calcistica e anche no) lo appenderei alla porta degli spogliatoi, obbligando chiunque la varcasse a impararlo a memoria. Non c’è pagina di questo manuale che non vada oltre i tecnicismi e persino i possibili anacronismi: perché è scritta da un Maestro, non da un Teorico. Perché dietro a ogni suggerimento, a ogni piccola suggestione, persino a ogni apparente ovvietà c’è la forza dell’Esempio.

La seconda sensazione che mi ha dato il libro parte sempre (anzi soprattutto) dall’amore, ma approda a una conclusione più amara. Forse è un bene,  perdonatemi Marisa, Luca e Gianmarco, ma provo a spiegarmi,  che Ago non abbia conosciuto né “questo” calcio, né “questa” società. Voi – premesso e incassato senza potervi replicare il “ma che ne puoi sapere tu quanto ci manca?” – potreste dirmi che avrebbe fatto di tutto per cambiarli: per cambiarli in meglio (e questo libro ne è una prova); ma se è vero che se n’è andato perché non si riconosceva più nell’aridità e nell’insensibilità del mondo che lo circondava e nel quale aveva creduto, ditemi come avrebbe potuto confrontare la propria dignità con tutto quello che ci opprime: nello sport, nella politica, nella quotidianità, nelle relazioni umane in generale. Lui, poi… Lui che quando era triste cercava di non fartelo mai capire; lui che quando era felice aveva l’amabilità di non ostentare fino in fondo il suo benessere, per timore che si scontrasse con qualche tua possibile malinconia.

Ora Ago vive e soprattutto sorride in questo manuale di impagabile e giudiziosa semplicità. È l’ultima lezione che ci ha voluto dare: ancora una volta col pudore di non volercelo far pesare.

 

Nonno Marcello, eroe dei Due Mondi

E’ stato l’ultimo CT a farci vincere una Coppa del Mondo. Nel 2006 Marcello Lippi era un “ragazzo” di 58 anni. Oggi ne compie 70. Ed è tutt’ora un bel vedere: nella faccia e nello spirito.
Curioso: anche se Marcello dei tre tecnici mondiali della storia azzurra è sempre parso di gran lunga il più “giovane” (di certo il più giovanile), Bearzot – detto il “Vecio” – conquistò il titolo quando di anni ne aveva 54; Vittorio Pozzo invece vinse la prima Coppa Rimet addirittura a 48 anni e la seconda a 52

Sarà il marchio della sua versilianità. Sarà che ha sempre trovato nuovi stimoli (e ancora li sta trovando). Sarà, lo dico anche per farmi un po’ di coraggio, che la nostra è una buona generazione
Sarebbe quasi offensivo ricostruire la sua carriera e la sua gloria. A me piuttosto piace ricordare che Marcello ha imparato a vivere “sulla strada”, raffinando piano piano la sua crescita come uomo e come professionista ammirato e stimato ovunque, fino a diventare un autentico “eroe dei due mondi” (nel senso che è stato l’unico allenatore ad aver vinto una Coppa Continentale sia in Europa che in Asia)
E’ incredibile come sia assolutamente rimasto se stesso (al netto di qualche concessione alla diplomazia corrente per spirito di sopravvivenza). Io e lui ci siano sempre parlati con grande, provinciale franchezza. Gli riconosco straordinari meriti umani e calcistici: l’unica cosa che – per quel che conta – gli ho rimproverato è stata quella di aver ceduto alla tentazione di tornare a guidare la Nazionale per la seconda volta, un po’ per tigna e un po’ per noia, andando a spiaggiarsi (lui che è uno straordinario marinaio) nei Mondiali del 2010. Mondiali del cui esito infelice, per la verità, si assunse a pochi minuti dalla fine ogni responsabilità, dando una lezione di stile non raccolta da altri
In effetti avrebbe dovuto pilotare, seppur in un ruolo diverso, anche l’ultima Nazionale (quella sciaguratamente esclusa da Russia 2018). Ecco, lì sì che la sua esperienza e la sua competenza sarebbero state utilissime per impedire al suo coetaneo Ventura, abbandonato da una Federazione completamente groggy e impotente, di portarci al disastro. Ma Tavecchio, dopo averlo ingaggiato gli disse  “scusi, mi sono sbagliato”

Voglio “raccontare” Lippi attraverso tre foto. La prima, la più ovvia, quella del suo trionfo mondiale: la seconda quelle di uno dei nostri tantissimi “meeting” musicali (entrambi propendiamo un po’ più per i Beatles che per i Rolling Stones) in questo caso radiofonico, quando cantò alla sua Simonetta “Questo nostro grande amore” di Fred Bongusto, la canzone che suggellò  la loro storia infinita; la terza, quella di una campagna sulla sicurezza stradale per la quale gli domandai di fare da testimonial. Non sapevo come chiederglielo, conoscendo i suoi impegni. “Aiutami a trovare un solo motivo con cui posso convincerti, Marcello…”. “Perché siamo nonni – mi rispose – e cos’altro c’è di più importante della vita e della sicurezza dei nostri ragazzi? Dimmi dove e a che ora devo venire”

 

 

Patty d’acciao

Persino oggi che compie 70 anni è molto difficile raccontare che cosa sia stata Patty Pravo per la storia della musica e, nel nostro piccolo, per un’intera generazione. È stata “fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo e fantasia” direbbe il poeta Francesco De Gregori suo grandissimo amico. Certamente è stata trasgressione, sensualità, irregolarità, capacità di stupire. Passione e freddezza. Coinvolgimento e distacco. Femminilità allo stato puro e affascinante androginia. Ma è stata anche tanto talento, gestito con quasi aristocratica nonchalance.
Si è fatta amare e, più di una volta non ha fatto nulla perché la si amasse. Di certo è stata ed è un esemplare unico. Molto probabilmente irripetibile. Figlia dei tempi ma anche di un DNA che ha fatto della libertà (a volte portata a livelli estremi) una sfacciata e seducente bandiera.
È stata tenuta per mano da piccola da un Papa che poi sarebbe diventato santo; è stata sorpresa mentre fumava uno spinello dentro una 500 con Jimi Hendrix; ha conosciuto il carcere per una storia di hashish e ne è uscita mentre le sue compagne di cella le cantavano commosse “Ragazzo triste”; ha adorato nonna Maria che le ha insegnato l’allegria e la spregiudicatezza; ha mostrato il suo corpo senza alcun pudore e allo stesso tempo ha rifiutato di recitare in un film di De Sica che avrebbe vinto l’Oscar; ha venduto decine di milioni di dischi; ha sposato cinque uomini dimenticando di sposare “seriamente” quello che ha amato di più. Ha vissuto! Non ponendosi mai il problema di toccare il pedale del freno
“La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me”. Impegno mantenuto. Buon compleanno Nicoletta

Le scuse a Fabrizio

Ora che di Fabrizio abbiamo detto e scritto tutto (anche chi non era abilitato a farlo: ma la sua grandezza è stata proprio quella di rendere chiunque in grado di esprimere un – dolce – pensiero su di lui), ora che il dolore sarà filtrato dal crudele setaccio di chi l’ha “veramente” perduto, ora che l’unanime consenso e il sincero sgomento per la sua scomparsa hanno chiuso il cerchio su una figura umana e professionale assolutamente unica, fraterna e inclusiva, mi aspetto che ci sia anche qualcuno che gli chieda scusa. Lui spesso lo ha fatto (e non avrebbe dovuto): altri, parlo di dirigenti miopi, di critici spietati, anche di pubblico un po’ ingrato e alla ricerca di sensazioni sguaiate, dovrebbero aggiungere al miele delle meritatissime e delicate parole per questo uomo straordinario, anche l’onestà di dire “tu, con la tua bonomia, con la tua lealtà, con la tua generosità, ma anche con la tua delicata serietà hai fatto tantissimo per noi, garantendoci sempre un senso a volte apparentemente anacronistico di decoro televisivo: noi adesso abbassiamo la testa e al nostro commosso “grazie”, aggiungiamo il nostro dispiacere per non averti sempre capito”

Alla Rai ha dato tanto e, ovviamente, dalla Rai non ha ricevuto di meno. Ma nella storia di questo lungo matrimonio professionale (interrotto solo per pochi mesi quando passò a Mediaset per essere stato umiliato da qualche dirigente perlomeno ingeneroso) ci sono stati momenti anche molto difficili, quasi incomprensibili per chi, come lui, era stato protagonista di autentici cicli trionfali. Quando è stato messo in disparte ha chinato il capo con pazienza e modestia (senza mai alzare la voce): quando  ha ritrovato la ribalta si è rimboccato le maniche con impegno e rispetto, senza mai coltivare né rivincite, ne vendette che non gli appartenevano.

Di certo ci sono soprattutto tre persone a cui deve dire grazie (fra i milioni che debbono dire grazie a lui): Michele Guardì non solo per averlo lanciato in orbita, ma anche per avergli inventato una second life quando la sua spinta propulsiva sembrava declinare; Paolo Ruffini direttore di Rai Tre che gli diede fiducia e lo riaccolse nella sua Rete quando alcuni geni di viale Mazzini lo avevano bollato come inidoneo a poter fare “cose importanti”; e Carlo Conti che col suo solo potere contrattuale di uomo vincente dell’Azienda gli ha spalancato le ultime bellissime porte che hanno tenuto acceso il suo amore per la vita. E poi ci sono centinaia di fedeli amici, di autori, di registi, di tecnici, di maestranze, insomma il suo grande, vero, silenzioso esercito aziendale che ora – assieme a milioni di persone – lo piange e lo onora con gratitudine, commozione e soprattutto sincerità

Il suo sogno era condurre il Festival di Sanremo. E lo avrebbe meritato. Se è vero com’è vero che in almeno tre-quattro edizioni gli hanno preferito personaggi che non avevano un briciolo della sua storia e della sua solidità e in altre tre occasioni hanno chiamato conduttori di Aziende concorrenti. Adesso è facile e soprattutto è giusto elogiarlo e rimpiangerlo: ma è anche giusto dire la verità. Che a lui continua a fare onore: a qualcun altro, no!

Ma è anche adesso più che mai che Fabrizio deve cominciare a vivere: nella fertilità e nella maestosità del suo insegnamento umano e professionale. In questi due eterni giorni abbiamo scoperto che era una miniera non solo di tutto quello che è stato detto (entusiasmo, serietà, lealtà, garbo, simpatia, educazione, coraggio e nobiltà): ma anche di altruismo, di generosità e di solidarietà. E forse altro e altro ancora scopriremo di lui

Non disperdiamo il suo esempio e la sua lezione. Né come fabbricanti delle cose televisive, né come spettatori. Perché da lui tutti abbiamo tanto, tanto, tanto da imparare.

Fabrizio ci ha insegnato a bussare prima di entrare. E ora, in punta di piedi, vado a dirgli addio

Passato di Nazionale

Commissario ci spieghi! Anzi, Commissari e sub-commissari (Fabbricini, Costacurta e Di Biagio) spiegateci: l’Italia – l’Italia dolorosamente eliminata dai Mondiali, l’Italia che ha cacciato il Tecnico e il Presidente protagonisti di quella disfatta, l’Italia che “guarda al futuro – stasera affronta l’Argentina ripartendo quasi esattamente dallo stesso punto e con gli stessi uomini (sette su undici e sarebbero stati otto se Chiellini non fosse infortunato) che erano stati protagonisti dello storico smacco di quattro mesi fa?

Qualcuno se l’è presa, solo e un po’ ingenerosamente con Buffon (che in fondo si è disciplinatamente messo a disposizione di una convocazione, anche se forse avrebbe dovuto dare lui stesso un contributo di coerenza sapendo perfettamente che non sarà il portiere del futuro), ma è tutto il progetto-surplace che rende attoniti. Nel 1974, dopo l’eliminazione dei Mondiali di Germania, Fulvio Bernardini spazzò via in un colpo solo Mazzola, Riva e Rivera e cominciò a plasmare il gioiello che affidò a Bearzot; nel 1986 Vicini, chiuso il grande ciclo del “Vecio”, praticamente promosse in Nazionale tutta la sua Under 21 (e che Under 21!); in tempi più recenti Prandelli dopo Sudafrica 2010 ripartì con 7-8 uomini nuovi investendo, a torto o a ragione, su Cassano e Balotelli (ignorati da Lippi). Meno clamoroso l’ingresso di new entries fra Prandelli e Conte, ma in quel caso ci fu un potentissimo cambio di “manico”: tanto più che all’epoca eravamo davanti a una generazione ancora integra con cui lavorare a breve in prospettiva-Europei e a medio in prospettiva-Mondiali.

E invece che senso ha l’ammuina di stasera? Si cerca il risultato onorevole (che Dio ce la mandi buona)? Si vuole dare il contentino ai reduci? Si vuol cinicamente capire quanto valga Di Biagio, che dunque si illude e si affida all’usato sicuro (?) nella speranza di una conferma? O più semplicemente non si ha la minima idea di che direzione prendere?

Stasera la Nazionale italiana del domani sarà tutta in panchina, non in campo! Siamo certi che sia il posto giusto per “fare esperienza” e guardare al futuro? Vista così, con tutti gli auguri e gli incoraggiamenti del caso, più che una Nazionale del Passato sembra un Passato di Nazionale. Insomma, una minestra riscaldata

Lo Squalo Rex

Ci sono due cose che vorrei ancora aggiungere sulla vittoria (ormai prosciugata di aggettivi) di Vincenzo Nibali nella Milano-Sanremo: anzi tre

La prima è che con lui è rinata una razza che si credeva estinta: quella del campione che va oltre le “specializzazioni”. “Un corridore che vince i grandi Giri – ormai si diceva da anni – non può essere un uomo da classiche: e viceversa”. Non era vero: non è più vero. Fatte le proporzioni coi tempi e dunque coi numeri (e senza scomodare Coppi e Bartali), si è ritrovato  il DNA smarrito dei Merckx, dei Gimondi, degli Hinault e di pochissimi altri (fra l’altro esplosi quando il ciclismo non conosceva ancora la globalizzazione). E’ rinato il T Rex! Indurain non ha mai vinto una classica: Sagan non vincerà mai un Giro. E parliamo di mostri!!! Nibali ha già trionfato quattro volte nei tre Grandi Giri (e al computo la giustizia  ne potrebbe aggiungere presto un altro) e ha cominciato a ingolosirsi alle Classiche Monumento: ha chiuso con l’ultima del 2017, ha riaperto con la prima del 2018 (con un atto di forza, di coraggio e di incoscienza sportivi che resteranno nella storia di questo sport). E forse nel suo palmares mancano un titolo olimpico e uno mondiale che sono letteralmente “scivolati” via con la sfortuna. Ma sul Mondiale non è davvero detto che nel 2018 non si possa rimediare

La seconda è che non solo Vincenzo è un campione pulito, ma soprattutto un uomo pulito. Non c’è nulla dei suoi comportamenti (sportivi e non) che non susciti consenso e ammirazione. Vogliamo dire un “esempio”? Vogliamo dire una “bella medicina” per un movimento ancora intossicato dai sospetti? Vogliamo dire una “benedizione”, anche morale, a cui tutto lo sport italiano dovrebbe guardare?

La terza è assolutamente personale, ma credo condivisa: da quanto tempo, guardando una qualsiasi prestazione sportiva non provavate un’emozione tanto forte, tanto rara, come quella che ci ha dato lo Squalo Rex?