Caspita se fu “rivoluzionario” il 1968 nello sport! Certo, tutti ricordano il pugno alzato guantata di nero degli americani Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri delle Olimpiadi di Città del Messico (che costò loro l’espulsione immediata dal Paese). Ma non tutti ricordano il nome del terzo componente di quel podio, l’australiano Peter Norman, che ebbe il non richiesto coraggio di aderire alla protesta dei due colleghi appuntando sulla tuta, sotto la sua medaglia d’argento, il distintivo del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani” e che per questo venne bollato a vita dalla sua Federazione ed escluso dai Giochi successivi pur essendosi qualificato e pur essendo il più grande velocista australiano di tutti i tempi: quando morì, nel 2006, Smith e Carlos andarono a Melbourne per sorreggerne la bara e ricomporre quel trio di eroi silenziosi
Le Olimpiadi di Città del Messico che si disputarono a ottobre inoltrato e, dunque, a 1968 ormai “maturo”, passarono tristemente alla storia anche per la sanguinaria repressione nella piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, allorché l’esercito – per “proteggere” i Giochi dalla protesta studentesca – aprì indiscriminatamente il fuoco su persone disarmate, facendo decine di morti (50 secondo una sommaria versione ufficiale, 300 secondo ricostruzioni più realistiche). Era il 2 ottobre: mancavano esattamente dieci giorni all’inizio delle Olimpiadi (e, per una strana coincidenza, poi verificatasi solo un altro paio di volte nella storia, appena due anni dall’ “accoppiata” coi Campionati del Mondo di Calcio: per intenderci quelli di Italia-Germania 4-3 e poi con la sconfitta azzurra in finale contro il Brasile)
I gesti di rivolta veri e propri, cruenti e non, fecero passare in secondo piano quanto di “solo” sportivamente, ma di egualmente “rivoluzionario”, accadde in quell’Olimpiade così drammatica. Da quell’edizione in poi, per esempio, il mondo si capovolse: perché uno studente di Portland, Richard Douglas Fosbury, detto “Dick”, decise che per vincere nel salto in alto da quel momento e per tutti i secoli successivi, no
n bisognava più guardare la terra eseguendo il cosiddetto “ventrale”: ma bisognava guardare il cielo, saltando di schiena! Il suo nome diventò un’antonomasia, il “Fosbury”, appunto. Completamente digiuno di marketing (ma poi si sarebbe rifatto!) saltò addirittura con due scarpe non solo di colore, ma in un primo tempo addirittura di marchi diversi: “Perché – spiegò – dal piede destro aveva bisogno di una spinta diversa rispetto a quella del piede sinistro”. Beata innocenza…. Oggi ci avrebbero fatto una campagna planetaria.
Furono, seppur con aspetti diametralmente opposti, anche i Giochi delle donne, quelli di Città del Messico. Da Norma Enriqueta Basilio, detta “Queta”, di origini indie e specialista degli 80 ostacoli, la prima donna, appunto, della storia ad accendere il tripode; ma anche di una delle più grandi ginnaste di tutti i tempi, Vera Caslavska che dopo aver vinto quattro medaglie d’oro e due d’argento, una volta tornata in patria venne di fatto esclusa da ogni diritto civile per aver aderito, prima di partite per i Giochi, alla Primavera di Praga repressa dai carrarmati e, durante i Giochi, per aver girato il viso per non guardare la bandiera dell’Unione Sovietica che saliva sul pennone. Quando, molti anni dopo, nel suo Paese tornò la libertà, diventò presidente del comitato Olimpico Cecoslovacco
E lo sport italiano? Conquistò, fra gli a
ltri, due celebri successi. Uno (rimasto irripetuto) nel calcio; e un altro, che alla lunga diede invece inaspettati frutti, nello sci.
In Italia si organizzarono per la prima volta i Campionati Europei: erano passati solo due anni dai disastrosi Mondiali d’In
ghilterra, resi tristemente celebri dalla disfatta degli azzurri contro la Corea. Ma per nostra fortuna stava maturando una generazione di fenomeni. Gli Europei, allora, non erano una mastodontica macchina mediatica. Le squadre in lizza per la fase finale erano solo quattro: l’Italia che comunque non godeva del beneficio di Nazione ospitante e si era dovuta qualificare “sul campo” battendo la Bulgaria, poi la Jugoslavia, l’URSS e la Spagna, vincitrici queste ultime, delle due edizioni continentali precedenti
L’Italia di Zoff, di Burgnich, di Facchetti, di Rivera, di Mazzola esordì contro l’Unione Sovietica al San Paolo di Napoli. Finì zero a zero e il regolamento di allora non contemplava né supplementari, né rigori (solo per un eventuale pareggio nella finale era prevista la ripetizione della partita dopo l’overtime): ma il sorteggio! Sì andò così nel luogo deputato alla stravagante cerimonia: lo stanzino dell’arbitro, il tedesco dell’Ovest (e dunque…non dell’Est, particolare non trascurabile) Kurt Tschenscher. Alla presenza dei due capitani Giacinto Facchetti e Albert Shesternev
(tenente dell’Armata Rossa) e dei due dirigenti accompagnatori. Fu Shesternev, che parlava solo russo e non capiva assolutamente nulla di quello che stava accadendo, a scegliere il lato del franco svizzero d’oro di rarissimo conio mostrato dall’arbitro. Lanciata in aria, la dispettosa moneta, non cadde “piatta” sul pavimento, ma rotolò di taglio sotto una panchina: dove l’arbitro si buttò come un
gattone esibendone sul palmo della mano, una volta rialzatosi, il lato opposto rispetto a quello indicato dal capitano sovietico. Facchetti, ovviamente, non si mise a discutere: salì di corsa a braccia levate gli scalini che riportavano sul prato del San Paolo, e l’urlo di 80.000 tifosi napoletani certificò irreversibilmente l’esito della partita sovrastando le certo non devote imprecazioni di Shesternev, che visse ancora per 26 anni, con la forse non infondata convinzione di essere stato preso per i fondelli. L’Italia poi pareggiò per 1 a 1 la finale con la Jugoslavia e nella ripetizione il ventenne Pietro Anastasi e il ventitreenne Gigi Riva diedero all’Italia un titolo, a tutt’oggi, rimasto unico.
E lo sci che c’entra, direte voi? Anche sulla neve, in quell’anno (e sempre ai Giochi invernali, che allora non erano sfalsati da quelli Estivi
e dunque si disputavano solo qualche mese prima) avvenne qualcosa di inaudito. Nello sci da fondo, anzi addirittura nella gara-regina, la 30 chilometri, per la prima volta dall’anno dell’istituzione delle Olimpiadi della Neve non vinse un finlandese, un norvegese, uno svedese e neanche un sovietico: ma un “meridionale”! Franco Nones, terrone della Val di Fiemme. Il Mondo, in quell’anno in cui accadde di tutto, capì che anche la latitudine era diventata una convezione superata.
Siete d’accordo? Condividete sui social la vostra storia e le vostre foto con l’hashtag #ILMIO68, insieme possiamo creare un album di ricordi unici. Le foto più belle e particolari verranno selezionate entro il 5 agosto per essere mostrate all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” al museo di Roma in Trastevere.
Il primo articolo è stato pubblicato il giorno 20 giugno.