Si può misurare la dimensione di una “rivoluzione” col metro della musica? Beh, non è un parametro trascurabile. Anche se tentare di ridurre tutto a uno spazio “convenzionale” come un anno solare è un esercizio complicato, quasi velleitario.
Qual è il nostro ’68 musicale? La dolce, bellissima e apparentemente anacronistica “Canzone per te” con cui in Italia Sergio Endrigo vince il Festival di Sanremo (dove peraltro si mimetizzano giganti come Dionne Warwick, Wilson Pickett e quel Louis Armstrong che pochi mesi dopo avrebbe venduto milioni di copie del suo “What a wonderful world” poi reso immortale da “Good Morning Vietnam”)? I Beatles che in piena (e per molti superata) maturità ci sbattono in faccia l’immensità del “White Album”? I capolavori con cui Simon&Garfunkel speziano il “Laureato” (da Mrs. Robinson a “The sound o silence”)? I Led Zeppelin che nascono? I “Velvet Underground” che ci traghettano negli anno ’70? Jimmy Hendrix che massacra con mano divina la sua Fender spiazzando e turbando i sonni di un’intera genìa di chitarristi europei? I Pink Floyd che perdono Syd Barret ma che continuano ad essere i Pink Floyd (mentre noi ci coccoliamo – e lo dico con ammirata e mai rinnegata ammirazione – l’Equipe 84, i Dik Dik , i Camaleonti e i neonati Pooh)? O piuttosto il musical “Hair” decollato l’anno prima, ma che nel 1968 invade il mondo e le coscienze più di mille tele e cinegiornali e che il 15 novembre del 1968, in un’America da poco segnata dagli assassini di Bob Kennedy e di Martin Luther King porta 500.000 persone a Washington davanti al Campidoglio per ricordare che c’è una generazione di americani che sta morendo senza ricordarsi più perché in una jungla straniera a migliaia di chilometri di distanza?
Troppo cose per catalogarle, capirle e soprattutto inscatolarle. Diciamo la verità: neanche il concerto di Woodstock dell’anno dopo, che per noi provinciali d’Europa sembra l’inizio di un mondo nuovo, riletto a posteriori riesce a sfuggire alla critica di chi l’ha ritenuto l’inizio della fine verso un’irreversibile deriva commerciale. Lo stesso Bob Dylan, nel 1968 comincia ad abbandonare la sua irripetibile crisalide di bardo di una nuova generazione per darsi a nuove e non più arrabbiate esplorazioni poetiche.
E noi ragazzi di allora che potevamo dire e fare presi com’eravamo da un esame di maturità che sembrava l’Everest, la scelta di una facoltà universitaria che – come si diceva – ci avrebbe dovuto spalancare le porte della vita e i due 45 giri al mese che non potevano permetterci di sbagliare perché ne andava della nostra ultima paghetta (che io cominciai ad arrotondare con articoli sul “Resto del Carlino” a 300 lire l’uno)? Volete conoscere la Hit Parade italiana assoluta del 1968? Primo Adriano Celentano con “Azzurro” (e una “Carezza in un pugno” sul retro). Seconda Patty Pravo con la “Bambola”. I Rolling Stones con “Jumpin’ Jack flash” sono all’87esimo posto: fra “Nel ristorante di Alice” dell’Equipe 84 e “Tenerezza” di Gianni Morandi.
Da noi, come dire, la “rivoluzione”, almeno attraverso la musica, si è presa i suoi tempi… Siete d’accordo? Riapriamo insieme l’album dei ricordi condividendo sui social il momento più significativo di quell’anno. Creiamo attraverso l’hashtag #ILMIO68 un mosaico di immagini unico per raccontare il vero volto dell’Italia, le foto più belle verranno esposte alla mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” a Roma, per un’esposizione ancora più intima, autentica e ricca di emozioni.
Il primo articolo è stato pubblicato il giorno 20 giugno.
Il secondo articolo è stato pubblicato il giorno 4 luglio.