Si fa presto a dire ’68! È il cinquantennale: ci tocca! E per quattro capitoletti racconterò anch’io, seppur non richiesto, cosa fu per me: se non altro come testimone anagraficamente informato (e presente) sui fatti
Ma siamo sicuri che nei libri di storia ci sia scritto tutto? Siamo sicuri che nell’enfasi di chi c’era, di chi pensava di esserci, di chi avrebbe sperato di esserci e ne ha parlato come se ci fosse stato, non si siano dimenticati piccoli, apparentemente insignificanti particolari che invece una sana archeologia minima avrebbe il dovere di rammentare?
Che cos’è giusto “ricordare” del ’68? Il maggio francese? Ovvio! Berkeley, il Vietnam e i figli dei fiori? Perfetto! I fermenti italiani (un po’ a ruota)? Come no? Gli eventi sportivi (certo: il Campionato Europeo – l’unico vinto dalla nostra Nazionale, le Olimpiadi di Città del Messico insanguinate in piazza delle Tre Culture). La Primavera di Praga? Sacrosanto! La musica? Beh, diciamo che altrove si era un po’ più avanti di noi (che come arma di propaganda mediatica avevamo al massimo il ciclostile): l’unica rivoluzione l’avevano fatta – ma prima! – Francesco Guccini creando una canzone sull’Olocausto e Paolo Pietrangeli (“Compagni dai campi e dalle officine”): per il resto – fatti salvi alcuni non trascurabili slanci di originalità – si imitava Bob Dylan come se piovesse.
Ma di cravatte…. Nessuno ha mai parlato di cravatte?
Faccio una premessa: appartengo a una classe, classe anagrafica (quella del 1949), che ha visto cadere tutti i ponti scolastici possibili alle sue spalle: esame di terza media, esame di quinta elementare (diverso da quello di ammissione alle medie che sopravvisse ancora un po’), ma soprattutto esame di stato – l’ultimo – con voti ancora dall’1 al 10, con tutte le materie per le quali andava sostenuta un’interrogazione a parte (oltre ovviamente alla corrispondente prova scritta, là dove prevista), con i riferimenti o “cenni” (si chiamavano così) sui programmi di studio degli ultimi tre anni. Insomma ti si poteva chiedere di tutto e su qualsiasi cosa.
E in più la cravatta! Il nostro fu l’ultimo esame nel quale la cravatta (per i maschi) era obbligatoria: e anche la giacca ca va sans dire. E in moltissimi istituti (non in tutti per la verità) le ragazze erano anche obbligate a presentarsi con lo stesso grembiule imposto nel corso dell’anno.
Si iniziava rigorosamente il primo luglio e dunque, a seguire: prova scritta di italiano, prova scritta di latino, prova scritta di matematica, prova scritta di lingue, poi prove pret a porter a seconda dei licei (disegno, ecc).
Dopodiché arrivavano gli orali e si ricominciava la litania: come detto, tutte le materie a una a una, in una specie di roulette russa affida
ta alla clemenza della corte (che era tutta “esterna” a parte un unico membro “interno” per tutto l’Istituto).
È servito? A molti di noi per stremarci. Ad altri per maturare. A tutti, certamente, per crescere.
Una cosa è certa, avendo capito che se volevo coronare l’unico piccolo sogno che avevo, la cosa più utile da fare (oltre che iscrivermi all’Università per far contenti i miei genitori) era acquistare una macchina da scrivere. Cominciai con la “Lettera 32”. L’anno dopo inventarono la “Valentina” che avrebbe fatto con me il giro del mondo.
Per me il ’68 è stata una rivoluzione in tutti i sensi. Per voi qual è stato il cambiamento più significativo? Condividete sui social la vostra storia e le vostre foto con l’hashtag #ILMIO68, creiamo insieme un album di ricordi. Le foto più belle verranno selezionate per essere mostrate all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” al museo di Roma in Trastevere.