#ILMIO68 – capitolo 4: Ma il ’68 è un vero “anno zero” o una convenzione?

In un film “storico” in bianco e nero (che però non passò… alla storia), un grande attore dell’epoca, brandendo la spada sentenziò: “E ricordiamoci che noi siamo Uomini del Medioevo!”. Ecco, come i contemporanei di allora non potevano sapere di essere Uomini di un’epoca che solo “dopo” sarebbe stata battezzata così, io non so quanti di noi si siano accorti di essere stati i “ragazzi del ‘68”. Certo, non potevamo ignorare i fermenti sociali, politici, artistici, estetici e via rivoluzionando che ci stavano tracimando attorno, ma fu solo successivamente che del ’68 (peraltro sempre inteso come metafora, perché il “68” in realtà durò quasi una decina d’anni) comprendemmo gli slanci, i passi in avanti, i grandi meriti e, a onor del vero, anche alcuni danni e alcune metastasi che avremmo pagato molto caro in più di una declinazione

Come abbiamo visto, di eventi importanti ne accaddero davvero parecchi e, curiosamente (o forse anche “scientificamente”), molto ben concentrati. Non fu un diluvio universale, non ci fu bisogno dell’Arca per “salvare” l’umanità, ma certamente molti parametri cambiarono: e, in fondo, “artisticamente” ci viene comodo dire che la cosa avvenne esattamente cinquant’anni fa (anche se Barnard aveva effettuato il primo trapianto di cuore l’anno prima, e l’uomo sulla Luna ci sarebbe arrivato l’anno dopo). Certo il Mondo, e anche l’Italia in discreta proporzione, cominciarono a perdere una buona parte dell’innocenza alimentata dalla lunga luna di miele del dopoguerra. Molti diritti, sacrosanti, pagarono prezzi sproporzionati al loro legittimo conseguimento.

Al tirar delle somme il mio ’68 fu quello della primavera di un mondo nuovo da costruire: avendo, per mia fortuna, le basi giuste, le motivazioni giuste e – certamente più di oggi – l’humus giusto per poterle realizzare.

E il vostro ’68 come è stato? Di vita vissuta e di esperienze formative? Di ricordi – maggiori o minori – focalizzati e indimenticabili? Di lontani racconti dei vostri nonni o dei vostri genitori di cui qualcosa avete capito e qualcos’altro vorreste meglio approfondire? Un anno di svolta? Di contraddizioni? Un magma che ha prodotto un mondo migliore (o peggiore)? Un semplice calendario ingiallito?

Per la smorfia napoletana il 68 è la “minestra cotta”. Ecco, per voi è stata cotta bene? O si poteva far meglio?

Condividiamo i nostri ricordi comuni sui social. Con l’hashtag #ILMIO68, possiamo creare un album forse decisamente inedito. Le foto più belle verranno selezionate per essere mostrate al museo di Roma in Trastevere all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Raccontiamo un anno di svolta.

#ILMIO68 – capitolo 3: La musica e una “rivoluzione” arrivata con calma

Si può misurare la dimensione di una “rivoluzione” col metro della musica? Beh, non è un parametro trascurabile. Anche se tentare di ridurre tutto a uno spazio “convenzionale” come un anno solare è un esercizio complicato, quasi velleitario.

Qual è il nostro ’68 musicale? La dolce, bellissima e apparentemente anacronistica “Canzone per te” con cui in Italia Sergio Endrigo vince il Festival di Sanremo (dove peraltro si mimetizzano giganti come Dionne Warwick, Wilson Pickett e quel Louis Armstrong che pochi mesi dopo avrebbe venduto milioni di copie del suo “What a wonderful world” poi reso immortale da “Good Morning Vietnam”)? I Beatles che in piena (e per molti superata) maturità ci sbattono in faccia l’immensità del “White Album”? I capolavori con cui Simon&Garfunkel speziano il “Laureato” (da Mrs. Robinson a “The sound o silence”)? I Led Zeppelin che nascono? I “Velvet Underground” che ci traghettano negli anno ’70? Jimmy Hendrix che massacra con mano divina la sua Fender spiazzando e turbando i sonni di un’intera genìa di chitarristi europei? I Pink Floyd che perdono Syd Barret ma che continuano ad essere i Pink Floyd (mentre noi ci coccoliamo – e lo dico con ammirata e mai rinnegata ammirazione – l’Equipe 84, i Dik Dik , i Camaleonti e i neonati Pooh)? O piuttosto il musical “Hair” decollato l’anno prima, ma che nel 1968 invade il mondo e le coscienze più di mille tele e cinegiornali e che il 15 novembre del 1968, in un’America da poco segnata dagli assassini di Bob Kennedy e di Martin Luther King porta 500.000 persone a Washington davanti al Campidoglio per ricordare che c’è una generazione di americani che sta morendo senza ricordarsi più perché in una jungla straniera a migliaia di chilometri di distanza?

Troppo cose per catalogarle, capirle e soprattutto inscatolarle. Diciamo la verità: neanche il concerto di Woodstock dell’anno dopo, che per noi provinciali d’Europa sembra l’inizio di un mondo nuovo, riletto a posteriori riesce a sfuggire alla critica di chi l’ha ritenuto l’inizio della fine verso un’irreversibile deriva commerciale. Lo stesso Bob Dylan, nel 1968 comincia ad abbandonare la sua irripetibile crisalide di bardo di una nuova generazione per darsi a nuove e non più arrabbiate esplorazioni poetiche.

E noi ragazzi di allora che potevamo dire e fare presi com’eravamo da un esame di maturità che sembrava l’Everest, la scelta di una facoltà universitaria che – come si diceva – ci avrebbe dovuto spalancare le porte della vita e i due 45 giri al mese che non potevano permetterci di sbagliare perché ne andava della nostra ultima paghetta (che io cominciai ad arrotondare con articoli sul “Resto del Carlino” a 300 lire l’uno)? Volete conoscere la Hit Parade italiana assoluta del 1968? Primo Adriano Celentano con “Azzurro” (e una “Carezza in un pugno” sul retro). Seconda Patty Pravo con la “Bambola”.  I Rolling Stones con “Jumpin’ Jack flash” sono all’87esimo posto: fra “Nel ristorante di Alice” dell’Equipe 84 e “Tenerezza” di Gianni Morandi.

Da noi, come dire, la “rivoluzione”, almeno attraverso la musica, si è presa i suoi tempi… Siete d’accordo? Riapriamo insieme l’album dei ricordi condividendo sui social il momento più significativo di quell’anno. Creiamo attraverso l’hashtag #ILMIO68 un mosaico di immagini unico per raccontare il vero volto dell’Italia, le foto più belle verranno esposte alla mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” a Roma, per un’esposizione ancora più intima, autentica e ricca di emozioni.

Il primo articolo è stato pubblicato il giorno 20 giugno.

Il secondo articolo è stato pubblicato il giorno 4 luglio.

#ILMIO68 – capitolo 2: Quando anche nello sport tutto si rovesciò

Caspita se fu “rivoluzionario” il 1968 nello sport! Certo, tutti ricordano il pugno alzato guantata di nero degli americani Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri delle Olimpiadi di Città del Messico (che costò loro l’espulsione immediata dal Paese). Ma non tutti ricordano il nome del terzo componente di quel podio, l’australiano Peter Norman, che ebbe il non richiesto coraggio di aderire alla protesta dei due colleghi appuntando sulla tuta, sotto la sua medaglia d’argento, il distintivo del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani” e che per questo venne bollato a vita dalla sua Federazione ed escluso dai Giochi successivi pur essendosi qualificato e pur essendo il più grande velocista australiano di tutti i tempi: quando morì, nel 2006, Smith e Carlos andarono a Melbourne per sorreggerne la bara e ricomporre quel trio di eroi silenziosi

Le Olimpiadi di Città del Messico che si disputarono a ottobre inoltrato e, dunque, a 1968 ormai “maturo”, passarono tristemente alla storia anche per la sanguinaria repressione nella piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, allorché l’esercito – per “proteggere” i Giochi dalla protesta studentesca – aprì indiscriminatamente il fuoco su persone disarmate, facendo decine di morti (50 secondo una sommaria versione ufficiale, 300 secondo ricostruzioni più realistiche). Era il 2 ottobre: mancavano esattamente dieci giorni all’inizio delle Olimpiadi (e, per una strana coincidenza, poi verificatasi solo un altro paio di volte nella storia, appena due anni dall’ “accoppiata” coi Campionati del Mondo di Calcio: per intenderci quelli di Italia-Germania 4-3 e poi con la sconfitta azzurra in finale contro il Brasile)

I gesti di rivolta veri e propri, cruenti e non, fecero passare in secondo piano quanto di “solo” sportivamente, ma di egualmente “rivoluzionario”, accadde in quell’Olimpiade così drammatica. Da quell’edizione in poi, per esempio, il mondo si capovolse: perché uno studente di Portland, Richard Douglas Fosbury, detto “Dick”, decise che per vincere nel salto in alto da quel momento e per tutti i secoli successivi, no

n bisognava più guardare la terra eseguendo il cosiddetto “ventrale”: ma bisognava guardare il cielo, saltando di schiena! Il suo nome diventò un’antonomasia, il “Fosbury”, appunto. Completamente digiuno di marketing (ma poi si sarebbe rifatto!) saltò addirittura con due scarpe non solo di colore, ma in un primo tempo addirittura di marchi diversi: “Perché – spiegò – dal piede destro aveva bisogno di una spinta diversa rispetto a quella del piede sinistro”. Beata innocenza…. Oggi ci avrebbero fatto una campagna planetaria.

Furono, seppur con aspetti diametralmente opposti, anche i Giochi delle donne, quelli di Città del Messico. Da Norma Enriqueta Basilio, detta “Queta”, di origini indie e specialista degli 80 ostacoli, la prima donna, appunto, della storia ad accendere il tripode; ma anche di una delle più grandi ginnaste di tutti i tempi, Vera Caslavska che dopo aver vinto quattro medaglie d’oro e due d’argento, una volta tornata in patria venne di fatto esclusa da ogni diritto civile per aver aderito, prima di partite per i Giochi, alla Primavera di Praga repressa dai carrarmati e, durante i Giochi, per aver girato il viso per non guardare la bandiera dell’Unione Sovietica che saliva sul pennone. Quando, molti anni dopo, nel suo Paese tornò la libertà, diventò presidente del comitato Olimpico Cecoslovacco

E lo sport italiano? Conquistò, fra gli a

ltri, due celebri successi. Uno (rimasto irripetuto) nel calcio; e un altro, che alla lunga diede invece inaspettati frutti, nello sci.

In Italia si organizzarono per la prima volta i Campionati Europei: erano passati solo due anni dai disastrosi Mondiali d’In

ghilterra, resi tristemente celebri dalla disfatta degli azzurri contro la Corea. Ma per nostra fortuna stava maturando una generazione di fenomeni. Gli Europei, allora, non erano una mastodontica macchina mediatica. Le squadre in lizza per la fase finale erano solo quattro: l’Italia che comunque non godeva del beneficio di Nazione ospitante e si era dovuta qualificare “sul campo” battendo la Bulgaria, poi la Jugoslavia, l’URSS e la Spagna, vincitrici queste ultime, delle due edizioni continentali precedenti

L’Italia di Zoff, di Burgnich, di Facchetti, di Rivera, di Mazzola esordì contro l’Unione Sovietica al San Paolo di Napoli. Finì zero a zero e il regolamento di allora non contemplava né supplementari, né rigori (solo per un eventuale pareggio nella finale era prevista la ripetizione della partita dopo l’overtime): ma il sorteggio! Sì andò così nel luogo deputato alla stravagante cerimonia: lo stanzino dell’arbitro, il tedesco dell’Ovest (e dunque…non dell’Est, particolare non trascurabile) Kurt Tschenscher. Alla presenza dei due capitani Giacinto Facchetti e Albert Shesternev

(tenente dell’Armata Rossa) e dei due dirigenti accompagnatori. Fu Shesternev, che parlava solo russo e non capiva assolutamente nulla di quello che stava accadendo, a scegliere il lato del franco svizzero d’oro di rarissimo conio mostrato dall’arbitro. Lanciata in aria, la dispettosa moneta, non cadde “piatta” sul pavimento, ma rotolò di taglio sotto una panchina: dove l’arbitro si buttò come un

 gattone esibendone sul palmo della mano, una volta rialzatosi, il lato opposto rispetto a quello indicato dal capitano sovietico. Facchetti, ovviamente, non si mise a discutere: salì di corsa a braccia levate gli scalini che riportavano sul prato del San Paolo, e l’urlo di 80.000 tifosi napoletani certificò irreversibilmente l’esito della partita sovrastando le certo non devote imprecazioni di Shesternev, che visse ancora per 26 anni, con la forse non infondata convinzione di essere stato preso per i fondelli. L’Italia poi pareggiò per 1 a 1 la finale con la Jugoslavia e nella ripetizione il ventenne Pietro Anastasi e il ventitreenne Gigi Riva diedero all’Italia un titolo, a tutt’oggi, rimasto unico.

E lo sci che c’entra, direte voi? Anche sulla neve, in quell’anno (e sempre ai Giochi invernali, che allora non erano sfalsati da quelli Estivi

 e dunque si disputavano solo qualche mese prima) avvenne qualcosa di inaudito. Nello sci da fondo, anzi addirittura nella gara-regina, la 30 chilometri, per la prima volta dall’anno dell’istituzione delle Olimpiadi della Neve non vinse un finlandese, un norvegese, uno svedese e neanche un sovietico: ma un “meridionale”! Franco Nones, terrone della Val di Fiemme. Il Mondo, in quell’anno in cui accadde di tutto, capì che anche la latitudine era diventata una convezione superata.

Siete d’accordo? Condividete sui social la vostra storia e le vostre foto con l’hashtag #ILMIO68, insieme possiamo creare un album di ricordi unici. Le foto più belle e particolari verranno selezionate entro il 5 agosto per essere mostrate all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” al museo di Roma in Trastevere.

Il primo articolo è stato pubblicato il giorno 20 giugno.

#ILMIO68 – capitolo 1: Quel ’68 combattuto con la cravatta

Si fa presto a dire ’68! È il cinquantennale: ci tocca! E per quattro capitoletti racconterò anch’io, seppur non richiesto, cosa fu per me: se non altro come testimone anagraficamente informato (e presente) sui fatti
Ma siamo sicuri che nei libri di storia ci sia scritto tutto? Siamo sicuri che nell’enfasi di chi c’era, di chi pensava di esserci, di chi avrebbe sperato di esserci e ne ha parlato come se ci fosse stato, non si siano dimenticati piccoli, apparentemente insignificanti particolari che invece una sana archeologia minima avrebbe il dovere di rammentare?

Che cos’è giusto “ricordare” del ’68? Il maggio francese? Ovvio!  Berkeley, il Vietnam e i figli dei fiori? Perfetto! I fermenti italiani (un po’ a ruota)? Come no? Gli eventi sportivi (certo: il Campionato Europeo – l’unico vinto dalla nostra Nazionale, le Olimpiadi di Città del Messico insanguinate in piazza delle Tre Culture). La Primavera di Praga? Sacrosanto! La musica? Beh, diciamo che altrove si era un po’ più avanti di noi (che come arma di propaganda mediatica avevamo al massimo il ciclostile): l’unica rivoluzione l’avevano fatta – ma prima! – Francesco Guccini creando una canzone sull’Olocausto e Paolo Pietrangeli (“Compagni dai campi e dalle officine”): per il resto – fatti salvi alcuni non trascurabili slanci di originalità – si imitava Bob Dylan come se piovesse.

Ma di cravatte…. Nessuno ha mai parlato di cravatte?

Faccio una premessa: appartengo a una classe, classe anagrafica (quella del 1949), che ha visto cadere tutti i ponti scolastici possibili alle sue spalle: esame di terza media, esame di quinta elementare (diverso da quello di ammissione alle medie che sopravvisse ancora un po’), ma soprattutto esame di stato – l’ultimo – con voti ancora dall’1 al 10, con tutte le materie per le quali andava sostenuta un’interrogazione a parte (oltre ovviamente alla corrispondente prova scritta, là dove prevista), con i riferimenti o “cenni” (si chiamavano così) sui programmi di studio degli ultimi tre anni. Insomma ti si poteva chiedere di tutto e su qualsiasi cosa.

E in più la cravatta! Il nostro fu l’ultimo esame nel quale la cravatta (per i maschi) era obbligatoria: e anche la giacca ca va sans dire. E in moltissimi istituti (non in tutti per la verità) le ragazze erano anche obbligate a presentarsi con lo stesso grembiule imposto nel corso dell’anno.

Si iniziava rigorosamente il primo luglio e dunque, a seguire: prova scritta di italiano, prova scritta di latino, prova scritta di matematica, prova scritta di lingue, poi prove pret a porter a seconda dei licei (disegno, ecc).

Bartoletti

Dopodiché arrivavano gli orali e si ricominciava la litania: come detto, tutte le materie a una a una, in una specie di roulette russa affida

ta alla clemenza della corte (che era tutta “esterna” a parte un unico membro “interno” per tutto l’Istituto).

È servito? A molti di noi per stremarci. Ad altri per maturare. A tutti, certamente, per crescere.

Una cosa è certa, avendo capito che se volevo coronare l’unico piccolo sogno che avevo, la cosa più utile da fare (oltre che iscrivermi all’Università per far contenti i miei genitori) era acquistare una macchina da scrivere. Cominciai con la “Lettera 32”. L’anno dopo inventarono la “Valentina” che avrebbe fatto con me il giro del mondo.

Per me il ’68 è stata una rivoluzione in tutti i sensi. Per voi qual è stato il cambiamento più significativo? Condividete sui social la vostra storia e le vostre foto con l’hashtag #ILMIO68, creiamo insieme un album di ricordi. Le foto più belle verranno selezionate per essere mostrate all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” al museo di Roma in Trastevere.

 

 

 

 

 

Il Malgioglio diverso

E’ tanto che non lo sento: è tantissimo che non lo vedo. Lo conobbi nel 1982 realizzando un servizio su di lui per la Rai: mi colpirono la sua timidezza, curiosamente fusa con una straordinaria determinazione. Nel giorno dei suoi  60 anni voglio salutarlo su questa pagina, regalandogli il mio augurio e il mio affetto immutato. Per non parlare della stima infinita.

Parlo di Astutillo Malgioglio, detto “Tito”: un giocatore “diverso”. Formalmente persino campione d’Italia come vice di un grandissimo portiere: perché questo era il suo ruolo, che lo portò fino alla Nazionale Under 21 di Vicini. Comunque, quasi 250 presenze da professionista, dal 1974 al 1992

Amava il suo lavoro: ma amava soprattutto la solidarietà.  Anche nel pieno dell’attività sportiva aveva dedicato gratuitamente la sua vita (e mi piace pensare che lo faccia ancora) al recupero dei ragazzi disabili, in particolare alla rieducazione motoria dei bambini cerebrolesi. Per loro, coi suoi guadagni, aveva allestito nella sua città natale un centro appositamente attrezzato e dovunque si fosse trasferito non aveva mai cessato questo suo impegno. Un illuminato presidente, uno solo, gli aveva concesso una zona della palestra d’allenamento della squadra per poter trattare i suoi piccoli “pazienti” con un po’ più di riservatezza e di tranquillità

Secondo alcuni tifosi (e anche un allenatore che non c’è più) questa attività lo “distraeva”. “Perché ti ho messo fuori squadra?” gli disse appunto questo tecnico quando lo allenava in una squadra del nord. “Vallo chiedere ai tuoi handicappati”. Un bruttissimo giorno un’intera curva – la sua – la curva di una grande società e di una grande città lo insultò a sangue ed espose lo striscione con scritto “Torna fra i tuoi mostri”. Lui si tolse la maglia e ci sputò sopra (unico gesto di ribellione di un uomo mite nell’arco di un’intera vita) e se ne andò da quella squadra e da quella città. Quando tornò da avversario qualche anno dopo, andò a salutare i tifosi in segno di riconciliazione con un mazzo di fiori in mano: venne preso a insulti e bottigliate. Riguadagnò la sua porta col viso sanguinante.

Una sola volta si rivolse ai colleghi “ricchi” per avere un aiuto attraverso l’Associazione Italiana Calciatori. La raccolta fra tutti i professionisti italiani fruttò 700.000 lire (350 euro attuali). Ma ci fu anche un suo compagno di squadra poi diventato campione d’Europa e del Mondo con la propria Nazionale, che un giorno – incuriosito – volle andare a vedere il suo “lavoro”, quello per cui scappava via alla fine di ogni allenamento. Si commosse nel vederlo “accarezzare”, toltisi i guantoni da portiere, quei bimbi silenziosi.  Gli staccò un assegno di tasca sua, cento volte superiore alla cifra “offerta” da tutti i giocatori italiani messi assieme

Una volta mi disse quasi con pudore: ”Dio mi ha dato delle buone mani: cerco di usarle meglio che posso fuori e dentro al campo”. Non è mai diventato ricco (ovviamente). “Il calcio è spesso apparenza, ma non tutto è da buttare. Per me è stato semplicemente uno strumento per avvicinarmi alla felicità”. Per non parlare di quella che ha dato lui a dei bimbi che potevano ringraziarlo solo con gli occhi

Il resto a Mancio

Pare ormai fatta. Sarà dunque Roberto Mancini il successore di Giampiero Ventura (anche se personalmente avevo auspicato che fosse stato “al posto” di Giampiero Ventura, nello sfortunato e incauto totonomine che precedette gli Europei del 2016). Verrà dunque affidato a lui, per farla rinascere, quello che resta della nostra Nazionale

Non so se fosse in ballottaggio con Ancelotti o se Celestino-Carletto gli abbia spianato la strada col suo gran rifiuto. Penso che sia una scelta giusta e inevitabile, che premia un tecnico relativamente giovane e allo stesso tempo di grandissima esperienza internazionale (e anche un amico, ma mi rendo conto che il particolare sia assolutamente ininfluente).

Conosco Roberto da 36 anni. Mi sono sempre chiesto – parlo del calciatore – se il suo sia stato un talento compiuto o (vista la sua classe altissima) un talento sprecato. E’ incredibile che un campione come lui non abbia mai disputato un solo minuto di un Campionato del Mondo (avendone sfiorati tre, 1982, 1986, 1994 ed essendo rimasto sempre fuori squadra nell’unico in cui è stato convocato).

Io c’ero nell’allora improbabile Varsity Stadium di Toronto quando nel pomeriggio del 26 maggio del 1984 esordì in azzurro contro il Canada entrando all’inizio del secondo tempo al posto di Bruno Giordano; e c’ero anche quando quattro giorni dopo Bearzot (che fra nostalgie e fughe in avanti stava inventando una nuova Nazionale per difendere il titolo mondiale), rifece la stessa mossa, nel diluvio, sull’erba sintetica del Giant Stadium di New York contro una paccottiglia targata USA. La sera stessa però, dopo la partita, Roberto decise che sarebbe stato bello andare in giro per vedere la Grande Mela: peccato che il Vecio, che lo aspettò fino alle ore piccole nella hall dell’albergo, gli comunicò che non avrebbe più visto la maglia azzurra

Con Azeglio Vicini, che ne fece uno dei leader della sua stupenda Under 21 e poi della Nazionale che andò agli Europei dell’88, la musica cambiò. Ma alla fine cambiò “troppo”, perché pur avendolo aggregato (secondo Mancio con grandi promesse) al gruppo di Italia ’90, gli preferì Roberto Baggio e lui fu, con Marocchi e i portieri di riserva, l’unico a non scendere mai in campo. Si “vendicò” vincendo pochi mesi dopo l’unico scudetto della Sampdoria assieme a suo fratello Gianluca: ma conservando (e questo mi addolora ancora adesso) un discreto  – anche se ormai immagino rimosso – rancore nei confronti del caro Azeglio.

Con Sacchi arrivarono altre lusinghe (e qualche altra partita): ma l’amore non sbocciò mai. Insomma, quasi un coitus interruptus quello fra Roberto e l’azzurro, che ora sfocia in questi matrimonio proprio nel ruolo di quanti non l’avevano capito

Per “colorare” un po’ questo benvenuto, mi piace riesumare un’intervista che gli feci nel 2002 per una serie di articoli che uscirono sul “Corriere della Sera” e che poi recuperai su “Calcio 2000”. Articoli dedicati, dal 1962 in poi (curiosamente dal primo Mondiale dell’Italia dopo la sua unica esclusione), ai più celebri “turisti azzurri”: a coloro cioè che i Campionati del Mondo li avevano visti solo dalla tribuna. C’è una curiosa profezia in fondo a quell’intervista: “Un giorno diventerò Commissario Tecnico della Nazionale”. Anzi, se avrete la pazienza di leggerlo, pur sbagliando la data, Mancini dice anche qualcosa di più

 

SETTANTA GIORNI DI RITIRO

PER FARE DA SPETTATORE!

di Marino Bartoletti

  Se arrivasse in Italia il famoso marziano che sa tutto di pallone e venisse a sapere che Roberto Mancini, vent’anni di Serie A, due scudetti storici (Sampdoria e Lazio), undici (!) Coppe nazionali e europee, simbolo acclarato del talento calcistico puro, non ha MAI disputato una sola partita di un solo Mondiale, ci toglierebbe probabilmente la tessera di abitanti della galassia. Eppure è andata proprio così.

   Quattro Mondiali “sfiorati”: un record. “E nell’unico in cui venni convocato, cioè in quello del ‘90 – ringhia Roberto con un rancore ancora solido, immutato e per nulla addolcito dal tempo – Azeglio Vicini non mi fece giocare neanche dieci minuti! Nemmeno la finale per il terzo posto! D’altra parte quello non fu certo l’unico errore che commise!”

   L’inizio – come dire – è promettente (e il buon Azeglio sarà meglio, se ne ha voglia, che prepari una replica per questa e per altre pepate affermazioni del suo ex pupillo). Ma anche le premesse sull’argomento sono gustose. Per chi non lo ricordasse, Roberto Mancini è stato uno dei rarissimi casi di “bambino prodigio” che ha mantenuto tutte, ma proprio tutte, le promesse dell’adolescenza. A sedici anni giocava già da titolare in serie A (nel Bologna), a diciassette venne scelto da Paolo Mantovani come prima pietra della Sampdoria dei miracoli. “Nell’82 Bearzot mi fece addirittura balenare la speranza di poter disputare il Mondiale di Spagna: mi inserì nella lista dei quaranta , poi, alla fine, preferì Selvaggi”. Però fu poi proprio Bearzot a farlo esordire, non appena ventenne, nella Nazionale ormai campione del mondo: anche se, più che un trampolino di lancio, quello diventò l’inizio di un clamoroso esilio. “Venni convocato per una tournee in America: si stavano gettando le basi del Mondiali dell’86. C’erano ancora Gentile, Tardelli, Scirea, Collovati, Altobelli, insomma buona parte del nucleo storico, più alcuni giovani da inserire (Bagni, Battistini, Fanna, lo stesso Baresi…) Giocai un tempo a Toronto, contro la Nazionale canadese; dopo quattro giorni, stesso copione a New York al Giant Stadium contro gli USA. Feci il mio dovere: almeno in campo”. In che senso “almeno in campo”? “Una sera uscii dall’albergo assieme ad altri compagni: New York era bella, piena di luci, un paradiso per i miei vent’anni non ancora compiuti. Non feci nulla di male: tornai solo un po’ più tardi del previsto. Bearzot mi aspettava al varco: me ne disse di tutti i colori. Io forse ebbi  il torto di non chiedere scusa, né quella notte, né una volta rientrati in Italia. Bearzot me la giurò: e non mi convocò mai più! E così saltò il secondo possibile Mondiale: quello dell’86”

   Meno male, Mancini, che in azzurro arrivò il suo “nemico” Vicini…” Ero il capitano della sua Under 21: c’erano Zenga, Vialli, Ferri, Giannini, De Napoli, Donadoni, la futura Nazionale. Perdemmo il titolo europeo ai rigori: ma ci volle tutti con sé al suo debutto sulla panchina “maggiore”. Arrivò quindi l’Europeo dell’88 (nel quale, per la verità, Vicini fece non poco per imporre e difendere la scelta di Mancini), ma finalmente – soprattutto – Italia ‘90: la prima, vera, attesa occasione per scendere in campo in un Mondiale. Ma non fu così.

    “Venni inserito nei ventidue, ma non sapevo se sarei partito titolare: tanto più che per l’attacco erano state fatte anche alcune convocazioni impreviste (Carnevale, Schillaci, Baggio): però proprio Vicini – alla vigilia – mi aprì il cuore. “La sorpresa del Mondiale – dichiarò – sarà Roberto Mancini”. Fu assolutamente di parola: di sette partite, non ne giocai neanche una. Neanche mezza”. E pensare che, sulla sua strada, non era ancora apparso – se non come timida alternativa – proprio il giovanissimo Roberto Baggio, la sua dannazione. “So benissimo perché Baggio giocò e io no: ma so anche benissimo che avremmo potuto giocare assieme essendo le nostre caratteristiche fondamentalmente diverse. Peccato che nessuno lo abbia mai capito: né in quell’occasione, né più tardi”

   Erano, lo ricorderete, le celebri “notti magiche” del calcio italiano. Il vento, per gli azzurri, sembrava spirare in una direzione sola: quella della vittoria. Ma mentre Schillaci trasformava in gol come Re Mida tutto quello che gli passava tra i piedi, mentre Vialli vedeva trasformare in calvario quello che doveva essere il “suo” Mondiale, Roberto Mancini schiumava di rabbia nelle retrovie. “Settanta giorni di ritiro per fare lo spettatore. Pazzesco! Vicini si comportò malissimo con me: non ebbe neppure il coraggio di darmi una spiegazione” E lei provò a darsene qualcuna? “Probabilmente il mio torto, come quello di Vialli o quello di Vierchowod era solo quello di giocare nella Sampdoria e non in una società politicamente più forte. E Vicini, si sa, non è mai stato un cuor di leone. In quel Mondiale, purtroppo, non fu neanche un tecnico accorto: nella partita che ci costò la finale, quella contro l’Argentina, sarebbe bastato mettere Vierchowod su Maradona e tutto sarebbe cambiato. Lo avrebbe visto anche un cieco: ma, purtroppo, non Vicini”  Certo che il tempo non ha davvero stemperato quella rabbia: forse Vicini fu chiamato a fare delle scelte, ora – da allenatore, da collega – lo può capire… “Neanche per idea: anzi, adesso lo capisco ancora meno. Un regalo, però, ce lo fece. Ci fece talmente imbestialire, ferì così tanto il nostro orgoglio che noi della Samp vincemmo alla grande il successivo scudetto”. Delusione dimenticata dunque. “Assolutamente no. Anche perché, tanto per cambiare… non giocai neppure il Mondiale successivo. Sacchi mi tenne con sé fino al marzo del ’94: ma due mesi dopo partì per l’America senza di me. E allora sa cosa le dico? Che a questo punto solo una cosa potrebbe farmi dimenticare le delusioni che il Mondiale mi ha dato. Vincerlo! Vincerlo come allenatore. Non ho fretta! Il 2010 potrebbe andare benissimo”

(pubblicato nel luglio 2002)

Benvenuti nell’Olimpo

È arrivato oggi agli 80 anni come nessuno di noi potrà mai sognare di arrivarci: integro, bello, sereno, forse felice.

A detta di molti, Nino Benvenuti è stato  il più grande pugile italiano. A detta di tutti – per classe, talento ed eleganza – è stato uno dei più grandi campioni del pugilato mondiale di ogni epoca. Ma non è questo il punto. Giovanni Benvenuti, detto Nino, è stato ed è soprattutto un Grande Italiano. Figlio di una storia dapprima crudele e poi diventata sempre più luminosa: rappresentante di una generazione che ha preso letteralmente a pugni la vita, non solo in senso metaforico, piegandola al segno della speranza, quando il nostro sembrava un Paese ormai in ginocchio e senza futuro.

Era fuggito dall’ Istria delle foibe e delle persecuzioni, portando a Trieste i suoi sogni ancora intatti e l’orgoglio della sua italianità. Quando vinse le Olimpiadi di Roma del 1960, venendo dichiarato l’atleta più forte in assoluto di quel torneo (davanti a un signore che si chiamava Cassius Clay), pianse di gioia e senza pudore guardando il tricolore che si alzava sul pennone più alto. Aveva combattuto, come sempre avrebbe fatto in futuro, con l’anello di sua madre Dora, (morta per le conseguenze postume  di una spedizione punitiva da parte di un commando di titini) allacciato alle stringhe delle sue scarpe da boxeur.

Il pugilato italiano in quei Giochi, portò a casa sette medaglie  (di cui tre d’oro) su dieci complessive. Mai come in quell’occasione lo sport aveva funzionato come volano di redenzione per tanti ragazzi che altrimenti avrebbero potuto prendere  strade meno fortunate

Quello che Nino fece poi da professionista è più leggenda che cronaca sportiva. Appartengo alla generazione di italiani (pare 16 milioni) che prima dell’alba del 17 aprile 1967 ascoltò alla radio il racconto del suo trionfo al Madison Square Garden di New York contro Emil Griffith, quando si laureò  campione del mondo dei pesi medi. Quel “nemico”Griffith, vittima di ogni forma di discriminazione nel suo Paese (per il colore della sua pelle e  per la sua omosessualità) che solo da parte sua, tanti anni dopo, ritrovò il conforto di un abbraccio fraterno e di una boccata d’ossigeno per continuare a vivere i suoi ultimi giorni con dignità

Lo sport non fornisce solo campioni con medaglie d’oro al collo o con prestigiosi simboli di gloria  sul petto e nel portafoglio: ma anche grandissimi esempi: e soprattutto grandissimi uomini.  Tutti in piedi per Nino!

 

 

Tuttosport, tutto “sbam”

Paolo de Paola, direttore di “Tuttosport”, lo storico quotidiano sportivo torinese, è stato licenziato (o, come si dice, “avvicendato) alla vigilia di Juventus-Napoli, partita verosimilmente decisiva per l’assegnazione dello scudetto: dunque nel momento più delicato dell’intera stagione calcistica. Al suo posto subentra Xavier Jacobelli. Ovviamente la mia riflessione prescinde dal valore dei colleghi coinvolti: amici, prima che eccellenti professionisti. Molto dignitoso ed elegante il saluto di De Paola; sicuramente non sarà meno ricco di classe il primo editoriale di Jacobelli

Certo, a noi poveri mortali, resta misterioso il senso della “tempistica”. E’ come se Milly Carlucci venisse sostituita – chessò – da  Antonella Clerici il giorno prima della finale di “Ballando con le stelle”; o se Claudio Baglioni fosse stato rimosso a favore di Gianni Morandi (tutti nomi esemplificativi, per carità) il giorno prima della finale di Sanremo. O, per restare in chiave calcistica, è come se l’Inter togliesse la panchina a Spalletti, o la Lazio a Inzaghi a due giornate dalla fine del campionato

Nella vita sono stato direttore per dieci volte. In cinque casi ho deciso io di cambiare strada per tentare nuove avventure: negli altri cinque hanno deciso altri (per la verità – lasciatemelo dire con un pizzico di civetteria senile e quindi ormai innocua – spesso ottenendo risultatati desolatamente inferiori). Ma gli Editori a volte sono così, come i presidenti delle società di calcio: “pagano” e fanno, giustamente, quello che vogliono. E hanno ragione: perchè loro sono loro…. Personalmente ne ho rimpianto soprattutto (se non soltanto) uno: Luciano Conti proprietario del “Guerin Sportivo” e dell’Azienda (ora assorbita dalla stessa del caso-Tuttosport) che ancora porta il suo nome.

Io e lui ci dicevamo tutto guardandoci negli occhi (anzi, a volte non avevamo neanche bisogno di parlare). Quando gli annunciai che sarei tornato alla tv, lasciando la nostra creatura in condizioni che non si sarebbero mai più ripetute, mi disse una cosa che non credevo che sarebbe mai uscita dal suo cuore apparentemente di pietra. E mi abbracciò, conferendomi il primato – credo – di essere stato l’unico maschio che abbia abbracciato nella sua vita.

Nel frattempo, sempre ieri, dalla mattina alla sera, sono stati licenziati (nel loro caso purtroppo non esistono sinonimi) anche i due vicedirettori della “Gazzetta dello Sport” Umberto Zapelloni e Stefano Cazzetta

Mai come adesso sono felice di essere un uomo senza padroni

Perchè tutti parlano di Ago

Tutti parlano di Ago in questi giorni. Ci sarà un perché. Quelli che c’erano: e quelli che non erano nati (o neppure previsti). Fu una meravigliosa notte di fine maggio, quella di Roma-Liverpool del 1984. Sfortunata, ma meravigliosa. Erano anni felici per il calcio italiano campione del mondo. Agostino Di Bartolomei, uomo irripetibile, era il comandante sul campo di  quel dolcissimo sogno che tutto sembrava poter portare verso la realtà. La bellezza della squadra, l’incredibile occasione di giocarsi la Coppa dei Campioni in casa: al Circo Massimo era tutto pronto per cantare “Grazie Roma” con Antonello.

Eravamo amici Ago ed io. Pur non stando nella stessa città. O forse proprio perché non stavamo nella stessa città. Era di una razza a parte (quella degli Scirea e pochi altri per intenderci). Potete immaginare come vissi – e come tutti vivemmo – il suo addio senza regalarci neanche un perché. Era il decennale esatto della finale col Liverpool

Sei anni fa accadde uno strano (quasi arcano) miracolo, mi telefonò Luca, figlio degno come pochi figli della bellezza morale di suo padre. “Marino devo assolutamente vederti di persona”. Mi portò il manoscritto del “Manuale del Calcio” a cui papà aveva lavorato a sua insaputa: lo aveva scoperto in un cassetto

Decine e decine di pagine dattiloscritte: con tutta la competenza, tutta la serietà,  tutto l’amore che Ago sapeva mettere in ciò che faceva. In certi riferimenti poteva sembrare fatalmente “datato”: ma aveva una qualità irreversibilmente contemporanea, quella della saggezza.  All’inizio del manoscritto c’era solo una pagina vuota su cui c’era scritto a matita: “Ricordarsi di chiedere la presentazione a Marino

“Te la chiedo io adesso” mi disse Luca

Commozione a parte, potevo non farla?

Eccola. Così come l’ho stilata e con la stessa citazione con cui l’ho iniziata. E non è facile respingere il groppo in gola. Ma anche la gioia di ricordare quell’Uomo!

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LA VOCE DEL SILENZIO

 di Marino Bartoletti

“Dio di misericordia

il tuo bel Paradiso

lo hai fatto soprattutto

per chi non ha sorriso

per quelli che han vissuto

con la coscienza pura

l’inferno esiste solo

per chi ne ha paura”

                        Fabrizio De Andrè

 

 

Ago e io ci parlavamo in silenzio. Nelle sale d’attesa degli aeroporti; nelle piccole hall degli alberghi delle Dolomiti dove la Roma andava in ritiro; davanti a un caffè a Trigoria quando quel posto era ancora il volano di accettabili e cordiali rapporti umani. Mi diceva più cose con le mani e con gli sguardi che non con le parole, che pure distillava con straordinaria intelligenza. Ed era impossibile non amare la sua educazione, la sua timidezza, la sua serietà, la sua malinconia, la sua ironia, la sua cultura.

Non credevo che mi avrebbe “parlato” ancora a distanza di tanti anni. Ma quando Luca mi ha fatto vedere quel manoscritto con il mio nome vergato dalla calligrafia di suo padre in una pagina vuota sotto la voce “presentazione”, ho capito che tutto quello che ci eravamo detti nei nostri silenzi non era stato inutile: perché volava addirittura al di sopra del tempo, dell’amicizia pur così profonda, della stima, della contemporaneità.

Ho letto avidamente questo libro che ha le radici nel passato, ma ha i suoi fiori, sempre freschissimi, nel presente: se non addirittura nel futuro. L’ho letto con la voce di Ago, un po’ nasale, ma sempre così garbata: gentile e convincente. L’ho letto abbassando gli occhi come faceva lui ogni tanto: e lo faceva a volte per reprimere nella gentilezza un’opinione diversa, ma soprattutto per riflettere. Mai per sottrarsi al dialogo.

Sono due le sensazioni, apparentemente (e forse anche dolorosamente) simmetriche, che ho maturato. La prima, quella che lui definisce genialmente “semplicità”, è la precondizione per l’apprendimento di tutte le cose: ma soprattutto è la premessa insostituibile dell’insegnamento. Leggete il suo “decalogo del calciatore”: se fossi il presidente di una qualsiasi società sportiva (calcistica e anche no) lo appenderei alla porta degli spogliatoi, obbligando chiunque la varcasse a impararlo a memoria. Non c’è pagina di questo manuale che non vada oltre i tecnicismi e persino i possibili anacronismi: perché è scritta da un Maestro, non da un Teorico. Perché dietro a ogni suggerimento, a ogni piccola suggestione, persino a ogni apparente ovvietà c’è la forza dell’Esempio.

La seconda sensazione che mi ha dato il libro parte sempre (anzi soprattutto) dall’amore, ma approda a una conclusione più amara. Forse è un bene,  perdonatemi Marisa, Luca e Gianmarco, ma provo a spiegarmi,  che Ago non abbia conosciuto né “questo” calcio, né “questa” società. Voi – premesso e incassato senza potervi replicare il “ma che ne puoi sapere tu quanto ci manca?” – potreste dirmi che avrebbe fatto di tutto per cambiarli: per cambiarli in meglio (e questo libro ne è una prova); ma se è vero che se n’è andato perché non si riconosceva più nell’aridità e nell’insensibilità del mondo che lo circondava e nel quale aveva creduto, ditemi come avrebbe potuto confrontare la propria dignità con tutto quello che ci opprime: nello sport, nella politica, nella quotidianità, nelle relazioni umane in generale. Lui, poi… Lui che quando era triste cercava di non fartelo mai capire; lui che quando era felice aveva l’amabilità di non ostentare fino in fondo il suo benessere, per timore che si scontrasse con qualche tua possibile malinconia.

Ora Ago vive e soprattutto sorride in questo manuale di impagabile e giudiziosa semplicità. È l’ultima lezione che ci ha voluto dare: ancora una volta col pudore di non volercelo far pesare.

 

Nonno Marcello, eroe dei Due Mondi

E’ stato l’ultimo CT a farci vincere una Coppa del Mondo. Nel 2006 Marcello Lippi era un “ragazzo” di 58 anni. Oggi ne compie 70. Ed è tutt’ora un bel vedere: nella faccia e nello spirito.
Curioso: anche se Marcello dei tre tecnici mondiali della storia azzurra è sempre parso di gran lunga il più “giovane” (di certo il più giovanile), Bearzot – detto il “Vecio” – conquistò il titolo quando di anni ne aveva 54; Vittorio Pozzo invece vinse la prima Coppa Rimet addirittura a 48 anni e la seconda a 52

Sarà il marchio della sua versilianità. Sarà che ha sempre trovato nuovi stimoli (e ancora li sta trovando). Sarà, lo dico anche per farmi un po’ di coraggio, che la nostra è una buona generazione
Sarebbe quasi offensivo ricostruire la sua carriera e la sua gloria. A me piuttosto piace ricordare che Marcello ha imparato a vivere “sulla strada”, raffinando piano piano la sua crescita come uomo e come professionista ammirato e stimato ovunque, fino a diventare un autentico “eroe dei due mondi” (nel senso che è stato l’unico allenatore ad aver vinto una Coppa Continentale sia in Europa che in Asia)
E’ incredibile come sia assolutamente rimasto se stesso (al netto di qualche concessione alla diplomazia corrente per spirito di sopravvivenza). Io e lui ci siano sempre parlati con grande, provinciale franchezza. Gli riconosco straordinari meriti umani e calcistici: l’unica cosa che – per quel che conta – gli ho rimproverato è stata quella di aver ceduto alla tentazione di tornare a guidare la Nazionale per la seconda volta, un po’ per tigna e un po’ per noia, andando a spiaggiarsi (lui che è uno straordinario marinaio) nei Mondiali del 2010. Mondiali del cui esito infelice, per la verità, si assunse a pochi minuti dalla fine ogni responsabilità, dando una lezione di stile non raccolta da altri
In effetti avrebbe dovuto pilotare, seppur in un ruolo diverso, anche l’ultima Nazionale (quella sciaguratamente esclusa da Russia 2018). Ecco, lì sì che la sua esperienza e la sua competenza sarebbero state utilissime per impedire al suo coetaneo Ventura, abbandonato da una Federazione completamente groggy e impotente, di portarci al disastro. Ma Tavecchio, dopo averlo ingaggiato gli disse  “scusi, mi sono sbagliato”

Voglio “raccontare” Lippi attraverso tre foto. La prima, la più ovvia, quella del suo trionfo mondiale: la seconda quelle di uno dei nostri tantissimi “meeting” musicali (entrambi propendiamo un po’ più per i Beatles che per i Rolling Stones) in questo caso radiofonico, quando cantò alla sua Simonetta “Questo nostro grande amore” di Fred Bongusto, la canzone che suggellò  la loro storia infinita; la terza, quella di una campagna sulla sicurezza stradale per la quale gli domandai di fare da testimonial. Non sapevo come chiederglielo, conoscendo i suoi impegni. “Aiutami a trovare un solo motivo con cui posso convincerti, Marcello…”. “Perché siamo nonni – mi rispose – e cos’altro c’è di più importante della vita e della sicurezza dei nostri ragazzi? Dimmi dove e a che ora devo venire”