#ILMIO68 – capitolo 4: Ma il ’68 è un vero “anno zero” o una convenzione?

In un film “storico” in bianco e nero (che però non passò… alla storia), un grande attore dell’epoca, brandendo la spada sentenziò: “E ricordiamoci che noi siamo Uomini del Medioevo!”. Ecco, come i contemporanei di allora non potevano sapere di essere Uomini di un’epoca che solo “dopo” sarebbe stata battezzata così, io non so quanti di noi si siano accorti di essere stati i “ragazzi del ‘68”. Certo, non potevamo ignorare i fermenti sociali, politici, artistici, estetici e via rivoluzionando che ci stavano tracimando attorno, ma fu solo successivamente che del ’68 (peraltro sempre inteso come metafora, perché il “68” in realtà durò quasi una decina d’anni) comprendemmo gli slanci, i passi in avanti, i grandi meriti e, a onor del vero, anche alcuni danni e alcune metastasi che avremmo pagato molto caro in più di una declinazione

Come abbiamo visto, di eventi importanti ne accaddero davvero parecchi e, curiosamente (o forse anche “scientificamente”), molto ben concentrati. Non fu un diluvio universale, non ci fu bisogno dell’Arca per “salvare” l’umanità, ma certamente molti parametri cambiarono: e, in fondo, “artisticamente” ci viene comodo dire che la cosa avvenne esattamente cinquant’anni fa (anche se Barnard aveva effettuato il primo trapianto di cuore l’anno prima, e l’uomo sulla Luna ci sarebbe arrivato l’anno dopo). Certo il Mondo, e anche l’Italia in discreta proporzione, cominciarono a perdere una buona parte dell’innocenza alimentata dalla lunga luna di miele del dopoguerra. Molti diritti, sacrosanti, pagarono prezzi sproporzionati al loro legittimo conseguimento.

Al tirar delle somme il mio ’68 fu quello della primavera di un mondo nuovo da costruire: avendo, per mia fortuna, le basi giuste, le motivazioni giuste e – certamente più di oggi – l’humus giusto per poterle realizzare.

E il vostro ’68 come è stato? Di vita vissuta e di esperienze formative? Di ricordi – maggiori o minori – focalizzati e indimenticabili? Di lontani racconti dei vostri nonni o dei vostri genitori di cui qualcosa avete capito e qualcos’altro vorreste meglio approfondire? Un anno di svolta? Di contraddizioni? Un magma che ha prodotto un mondo migliore (o peggiore)? Un semplice calendario ingiallito?

Per la smorfia napoletana il 68 è la “minestra cotta”. Ecco, per voi è stata cotta bene? O si poteva far meglio?

Condividiamo i nostri ricordi comuni sui social. Con l’hashtag #ILMIO68, possiamo creare un album forse decisamente inedito. Le foto più belle verranno selezionate per essere mostrate al museo di Roma in Trastevere all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Raccontiamo un anno di svolta.

#ILMIO68 – capitolo 3: La musica e una “rivoluzione” arrivata con calma

Si può misurare la dimensione di una “rivoluzione” col metro della musica? Beh, non è un parametro trascurabile. Anche se tentare di ridurre tutto a uno spazio “convenzionale” come un anno solare è un esercizio complicato, quasi velleitario.

Qual è il nostro ’68 musicale? La dolce, bellissima e apparentemente anacronistica “Canzone per te” con cui in Italia Sergio Endrigo vince il Festival di Sanremo (dove peraltro si mimetizzano giganti come Dionne Warwick, Wilson Pickett e quel Louis Armstrong che pochi mesi dopo avrebbe venduto milioni di copie del suo “What a wonderful world” poi reso immortale da “Good Morning Vietnam”)? I Beatles che in piena (e per molti superata) maturità ci sbattono in faccia l’immensità del “White Album”? I capolavori con cui Simon&Garfunkel speziano il “Laureato” (da Mrs. Robinson a “The sound o silence”)? I Led Zeppelin che nascono? I “Velvet Underground” che ci traghettano negli anno ’70? Jimmy Hendrix che massacra con mano divina la sua Fender spiazzando e turbando i sonni di un’intera genìa di chitarristi europei? I Pink Floyd che perdono Syd Barret ma che continuano ad essere i Pink Floyd (mentre noi ci coccoliamo – e lo dico con ammirata e mai rinnegata ammirazione – l’Equipe 84, i Dik Dik , i Camaleonti e i neonati Pooh)? O piuttosto il musical “Hair” decollato l’anno prima, ma che nel 1968 invade il mondo e le coscienze più di mille tele e cinegiornali e che il 15 novembre del 1968, in un’America da poco segnata dagli assassini di Bob Kennedy e di Martin Luther King porta 500.000 persone a Washington davanti al Campidoglio per ricordare che c’è una generazione di americani che sta morendo senza ricordarsi più perché in una jungla straniera a migliaia di chilometri di distanza?

Troppo cose per catalogarle, capirle e soprattutto inscatolarle. Diciamo la verità: neanche il concerto di Woodstock dell’anno dopo, che per noi provinciali d’Europa sembra l’inizio di un mondo nuovo, riletto a posteriori riesce a sfuggire alla critica di chi l’ha ritenuto l’inizio della fine verso un’irreversibile deriva commerciale. Lo stesso Bob Dylan, nel 1968 comincia ad abbandonare la sua irripetibile crisalide di bardo di una nuova generazione per darsi a nuove e non più arrabbiate esplorazioni poetiche.

E noi ragazzi di allora che potevamo dire e fare presi com’eravamo da un esame di maturità che sembrava l’Everest, la scelta di una facoltà universitaria che – come si diceva – ci avrebbe dovuto spalancare le porte della vita e i due 45 giri al mese che non potevano permetterci di sbagliare perché ne andava della nostra ultima paghetta (che io cominciai ad arrotondare con articoli sul “Resto del Carlino” a 300 lire l’uno)? Volete conoscere la Hit Parade italiana assoluta del 1968? Primo Adriano Celentano con “Azzurro” (e una “Carezza in un pugno” sul retro). Seconda Patty Pravo con la “Bambola”.  I Rolling Stones con “Jumpin’ Jack flash” sono all’87esimo posto: fra “Nel ristorante di Alice” dell’Equipe 84 e “Tenerezza” di Gianni Morandi.

Da noi, come dire, la “rivoluzione”, almeno attraverso la musica, si è presa i suoi tempi… Siete d’accordo? Riapriamo insieme l’album dei ricordi condividendo sui social il momento più significativo di quell’anno. Creiamo attraverso l’hashtag #ILMIO68 un mosaico di immagini unico per raccontare il vero volto dell’Italia, le foto più belle verranno esposte alla mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” a Roma, per un’esposizione ancora più intima, autentica e ricca di emozioni.

Il primo articolo è stato pubblicato il giorno 20 giugno.

Il secondo articolo è stato pubblicato il giorno 4 luglio.

#ILMIO68 – capitolo 2: Quando anche nello sport tutto si rovesciò

Caspita se fu “rivoluzionario” il 1968 nello sport! Certo, tutti ricordano il pugno alzato guantata di nero degli americani Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri delle Olimpiadi di Città del Messico (che costò loro l’espulsione immediata dal Paese). Ma non tutti ricordano il nome del terzo componente di quel podio, l’australiano Peter Norman, che ebbe il non richiesto coraggio di aderire alla protesta dei due colleghi appuntando sulla tuta, sotto la sua medaglia d’argento, il distintivo del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani” e che per questo venne bollato a vita dalla sua Federazione ed escluso dai Giochi successivi pur essendosi qualificato e pur essendo il più grande velocista australiano di tutti i tempi: quando morì, nel 2006, Smith e Carlos andarono a Melbourne per sorreggerne la bara e ricomporre quel trio di eroi silenziosi

Le Olimpiadi di Città del Messico che si disputarono a ottobre inoltrato e, dunque, a 1968 ormai “maturo”, passarono tristemente alla storia anche per la sanguinaria repressione nella piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, allorché l’esercito – per “proteggere” i Giochi dalla protesta studentesca – aprì indiscriminatamente il fuoco su persone disarmate, facendo decine di morti (50 secondo una sommaria versione ufficiale, 300 secondo ricostruzioni più realistiche). Era il 2 ottobre: mancavano esattamente dieci giorni all’inizio delle Olimpiadi (e, per una strana coincidenza, poi verificatasi solo un altro paio di volte nella storia, appena due anni dall’ “accoppiata” coi Campionati del Mondo di Calcio: per intenderci quelli di Italia-Germania 4-3 e poi con la sconfitta azzurra in finale contro il Brasile)

I gesti di rivolta veri e propri, cruenti e non, fecero passare in secondo piano quanto di “solo” sportivamente, ma di egualmente “rivoluzionario”, accadde in quell’Olimpiade così drammatica. Da quell’edizione in poi, per esempio, il mondo si capovolse: perché uno studente di Portland, Richard Douglas Fosbury, detto “Dick”, decise che per vincere nel salto in alto da quel momento e per tutti i secoli successivi, no

n bisognava più guardare la terra eseguendo il cosiddetto “ventrale”: ma bisognava guardare il cielo, saltando di schiena! Il suo nome diventò un’antonomasia, il “Fosbury”, appunto. Completamente digiuno di marketing (ma poi si sarebbe rifatto!) saltò addirittura con due scarpe non solo di colore, ma in un primo tempo addirittura di marchi diversi: “Perché – spiegò – dal piede destro aveva bisogno di una spinta diversa rispetto a quella del piede sinistro”. Beata innocenza…. Oggi ci avrebbero fatto una campagna planetaria.

Furono, seppur con aspetti diametralmente opposti, anche i Giochi delle donne, quelli di Città del Messico. Da Norma Enriqueta Basilio, detta “Queta”, di origini indie e specialista degli 80 ostacoli, la prima donna, appunto, della storia ad accendere il tripode; ma anche di una delle più grandi ginnaste di tutti i tempi, Vera Caslavska che dopo aver vinto quattro medaglie d’oro e due d’argento, una volta tornata in patria venne di fatto esclusa da ogni diritto civile per aver aderito, prima di partite per i Giochi, alla Primavera di Praga repressa dai carrarmati e, durante i Giochi, per aver girato il viso per non guardare la bandiera dell’Unione Sovietica che saliva sul pennone. Quando, molti anni dopo, nel suo Paese tornò la libertà, diventò presidente del comitato Olimpico Cecoslovacco

E lo sport italiano? Conquistò, fra gli a

ltri, due celebri successi. Uno (rimasto irripetuto) nel calcio; e un altro, che alla lunga diede invece inaspettati frutti, nello sci.

In Italia si organizzarono per la prima volta i Campionati Europei: erano passati solo due anni dai disastrosi Mondiali d’In

ghilterra, resi tristemente celebri dalla disfatta degli azzurri contro la Corea. Ma per nostra fortuna stava maturando una generazione di fenomeni. Gli Europei, allora, non erano una mastodontica macchina mediatica. Le squadre in lizza per la fase finale erano solo quattro: l’Italia che comunque non godeva del beneficio di Nazione ospitante e si era dovuta qualificare “sul campo” battendo la Bulgaria, poi la Jugoslavia, l’URSS e la Spagna, vincitrici queste ultime, delle due edizioni continentali precedenti

L’Italia di Zoff, di Burgnich, di Facchetti, di Rivera, di Mazzola esordì contro l’Unione Sovietica al San Paolo di Napoli. Finì zero a zero e il regolamento di allora non contemplava né supplementari, né rigori (solo per un eventuale pareggio nella finale era prevista la ripetizione della partita dopo l’overtime): ma il sorteggio! Sì andò così nel luogo deputato alla stravagante cerimonia: lo stanzino dell’arbitro, il tedesco dell’Ovest (e dunque…non dell’Est, particolare non trascurabile) Kurt Tschenscher. Alla presenza dei due capitani Giacinto Facchetti e Albert Shesternev

(tenente dell’Armata Rossa) e dei due dirigenti accompagnatori. Fu Shesternev, che parlava solo russo e non capiva assolutamente nulla di quello che stava accadendo, a scegliere il lato del franco svizzero d’oro di rarissimo conio mostrato dall’arbitro. Lanciata in aria, la dispettosa moneta, non cadde “piatta” sul pavimento, ma rotolò di taglio sotto una panchina: dove l’arbitro si buttò come un

 gattone esibendone sul palmo della mano, una volta rialzatosi, il lato opposto rispetto a quello indicato dal capitano sovietico. Facchetti, ovviamente, non si mise a discutere: salì di corsa a braccia levate gli scalini che riportavano sul prato del San Paolo, e l’urlo di 80.000 tifosi napoletani certificò irreversibilmente l’esito della partita sovrastando le certo non devote imprecazioni di Shesternev, che visse ancora per 26 anni, con la forse non infondata convinzione di essere stato preso per i fondelli. L’Italia poi pareggiò per 1 a 1 la finale con la Jugoslavia e nella ripetizione il ventenne Pietro Anastasi e il ventitreenne Gigi Riva diedero all’Italia un titolo, a tutt’oggi, rimasto unico.

E lo sci che c’entra, direte voi? Anche sulla neve, in quell’anno (e sempre ai Giochi invernali, che allora non erano sfalsati da quelli Estivi

 e dunque si disputavano solo qualche mese prima) avvenne qualcosa di inaudito. Nello sci da fondo, anzi addirittura nella gara-regina, la 30 chilometri, per la prima volta dall’anno dell’istituzione delle Olimpiadi della Neve non vinse un finlandese, un norvegese, uno svedese e neanche un sovietico: ma un “meridionale”! Franco Nones, terrone della Val di Fiemme. Il Mondo, in quell’anno in cui accadde di tutto, capì che anche la latitudine era diventata una convezione superata.

Siete d’accordo? Condividete sui social la vostra storia e le vostre foto con l’hashtag #ILMIO68, insieme possiamo creare un album di ricordi unici. Le foto più belle e particolari verranno selezionate entro il 5 agosto per essere mostrate all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” al museo di Roma in Trastevere.

Il primo articolo è stato pubblicato il giorno 20 giugno.

#ILMIO68 – capitolo 1: Quel ’68 combattuto con la cravatta

Si fa presto a dire ’68! È il cinquantennale: ci tocca! E per quattro capitoletti racconterò anch’io, seppur non richiesto, cosa fu per me: se non altro come testimone anagraficamente informato (e presente) sui fatti
Ma siamo sicuri che nei libri di storia ci sia scritto tutto? Siamo sicuri che nell’enfasi di chi c’era, di chi pensava di esserci, di chi avrebbe sperato di esserci e ne ha parlato come se ci fosse stato, non si siano dimenticati piccoli, apparentemente insignificanti particolari che invece una sana archeologia minima avrebbe il dovere di rammentare?

Che cos’è giusto “ricordare” del ’68? Il maggio francese? Ovvio!  Berkeley, il Vietnam e i figli dei fiori? Perfetto! I fermenti italiani (un po’ a ruota)? Come no? Gli eventi sportivi (certo: il Campionato Europeo – l’unico vinto dalla nostra Nazionale, le Olimpiadi di Città del Messico insanguinate in piazza delle Tre Culture). La Primavera di Praga? Sacrosanto! La musica? Beh, diciamo che altrove si era un po’ più avanti di noi (che come arma di propaganda mediatica avevamo al massimo il ciclostile): l’unica rivoluzione l’avevano fatta – ma prima! – Francesco Guccini creando una canzone sull’Olocausto e Paolo Pietrangeli (“Compagni dai campi e dalle officine”): per il resto – fatti salvi alcuni non trascurabili slanci di originalità – si imitava Bob Dylan come se piovesse.

Ma di cravatte…. Nessuno ha mai parlato di cravatte?

Faccio una premessa: appartengo a una classe, classe anagrafica (quella del 1949), che ha visto cadere tutti i ponti scolastici possibili alle sue spalle: esame di terza media, esame di quinta elementare (diverso da quello di ammissione alle medie che sopravvisse ancora un po’), ma soprattutto esame di stato – l’ultimo – con voti ancora dall’1 al 10, con tutte le materie per le quali andava sostenuta un’interrogazione a parte (oltre ovviamente alla corrispondente prova scritta, là dove prevista), con i riferimenti o “cenni” (si chiamavano così) sui programmi di studio degli ultimi tre anni. Insomma ti si poteva chiedere di tutto e su qualsiasi cosa.

E in più la cravatta! Il nostro fu l’ultimo esame nel quale la cravatta (per i maschi) era obbligatoria: e anche la giacca ca va sans dire. E in moltissimi istituti (non in tutti per la verità) le ragazze erano anche obbligate a presentarsi con lo stesso grembiule imposto nel corso dell’anno.

Si iniziava rigorosamente il primo luglio e dunque, a seguire: prova scritta di italiano, prova scritta di latino, prova scritta di matematica, prova scritta di lingue, poi prove pret a porter a seconda dei licei (disegno, ecc).

Bartoletti

Dopodiché arrivavano gli orali e si ricominciava la litania: come detto, tutte le materie a una a una, in una specie di roulette russa affida

ta alla clemenza della corte (che era tutta “esterna” a parte un unico membro “interno” per tutto l’Istituto).

È servito? A molti di noi per stremarci. Ad altri per maturare. A tutti, certamente, per crescere.

Una cosa è certa, avendo capito che se volevo coronare l’unico piccolo sogno che avevo, la cosa più utile da fare (oltre che iscrivermi all’Università per far contenti i miei genitori) era acquistare una macchina da scrivere. Cominciai con la “Lettera 32”. L’anno dopo inventarono la “Valentina” che avrebbe fatto con me il giro del mondo.

Per me il ’68 è stata una rivoluzione in tutti i sensi. Per voi qual è stato il cambiamento più significativo? Condividete sui social la vostra storia e le vostre foto con l’hashtag #ILMIO68, creiamo insieme un album di ricordi. Le foto più belle verranno selezionate per essere mostrate all’interno della mostra “Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo” al museo di Roma in Trastevere.